martedì 30 marzo 2010

Parco Nazionale di Virunga



Uno dei motivi per cui la scalata al vulcano è stata un'esperienza straordinaria, è che il Parco Nazionale di Virunga ha appena riaperto al pubblico dopo una lunghissima chiusura. Per anni, uno dei parchi più belli del continente è stato la base favorita dei gruppi ribelli del Nord Kuvu. Il che non lo rendeva esattamente un posto adatto farci dei pic-nic. Lo si intuisce ancora oggi, dal cartello di benvenuto crivellato di pallottole. O dalle nostre guide d'escursione, non proprio attrezzate come dei boy scouts...

lunedì 29 marzo 2010

Volcano



E una volta arrivati... Il vulcano! Bastava sporgesi e guardare, come se si trattasse di una pentola enorme sul cui bordo ci appoggiavamo noi, formichine infreddolite. Dentro al cratere, rughe di fuoco. La lava gorgogliava, e sprizzi e bolle infuocate salivano lungo le linee di rottura di quella crosta friabile e rovente. Che spettacolo vedere l'alba sull'orlo del cratere! Vedere il cielo che si accendeva di azzurro e le linee del paesaggio che si riempivano poco a poco di colori, nella bruma del mattino.

Eravamo stanchi, oh se lo eravamo. Abbiamo passato la nottata stretti dentro quelle tende, sull'orlo del precipizio. Pioveva, ha piovuto tutta la notte. Niente barbecue per noi, nè chiacchiere attorno al fuoco. Ma stretti stretti nelle tende, abbiamo vissuto la notte del Nyragongo, ululante, scrosciante. Col freddo, l'acqua che filtrava, tutte le coperte che si bagnavano. I vestiti fradici e ghiacciati da indossare la mattina, le scarpe trovate al bordo della tenda piene d'acqua, come tazze di the. Per tutta la notte, il vulcano di roccia nera si agitava nella sua rabbia, dentro al calderone del suo bacino. Un vulcano attivo, della Rift Valley Africana. E noi, sferzati e frustati da quella pioggia e da quelle spine, l'avevamo conquistato.

La salita



Tempo fa parlavo con un vecchio compagno di liceo che sta svolgendo un dottorato nel Regno Unito. Spiegandomi la sua tesi sulla psicologia dello sport, mi diceva che non esiste un momento in cui il corpo "non ce la fa più" a compiere uno sforzo. Quando ci si ferma è solo perchè decidiamo di farlo, non perchè il corpo smette di rispondere. Per quanto mi riguarda, questa tesi è stata comprovata questo weekend, quando con un gruppo di intrepidi temerari ho scalato il Nyragongo. E' stato massacrante, assolutamente al di là delle mie possibilità. Ma non ci si poteva fermare, e non l'ho fatto.

Sette ore e mezza di salita. La prima ora di cammino si è svolta nella giungla, nella vera foresta tropicale. Poi è stata la volta del dorso della montagna, coperto di sassi di lava condensata, in una vegetazione arida e profumata come quella della Sardegna. Ogni tanto si vedevano delle fuoriuscite di fumo dalla terra e si sentiva odore di zolfo. Su qualche albero, come dei nidi, c'erano dei grumi di lava condensati sui rami. Dopo queste prime quattro ore di marcia intensa, è cominciata la vera salita, quella ripida. Lunghissima e ardua. L'altitudine era tale che cominciava a mancare l'ossigeno, ci dovevamo fermare ogni pochi metri per riprendere fiato. E' a quel punto che ha cominciato a piovere, anzi a grandinare. Non ci potevo credere che fosse grandine, faceva così caldo per noi scalatori... Una grandine tropicale, furiosa. E noi avanzavamo, passo dopo passo, su un sentiero che era diventata una cascata, con l'acqua fino alle caviglie, per altre due ore. Se fossi stato possibile fermarsi l'avrei fatto, la mia fatica me lo imponeva. Ma non era possibile, bisognava continuare. Chiedevo alle guardie quanto mancava, ogni pochi minuti. E come si fa con i bambini, loro rispondevano: "Siamo quasi arrivati".

Quasi sulla cima, ci siamo intrufolati in un piccolo rifugio di lamiera. Faceva freddissimo, e noi ci stringevamo tra di noi per scaldarci. Mancava solo l'ultimo tratto, una parete così verticale che ogni tanto si doveva avanzare a quattro zampe. Sfiniti e grondanti, ci siamo inerpicati. Al buio, col terreno bagnato, senza aria per respirare. Faceva paura. Ma - miracolo - una guardia mi ha dato la mano. Mi ha dato la mano e mi diceva dai che ci siamo. Un ranger delle montagne col fucile a tracolla e tuta mimetica che mi diceva dai che ci siamo... Ero stordita di fatica, ricordo solo un alone rosso intorno alla cima della montagna, mentre risalivo. Era il riverbero della lava. Si vedevano appena le ombre di quelli che erano già arrivati in cima. Si muovevano contro luce, montando le tende. E alla fine c'eravamo davvero.

venerdì 26 marzo 2010

Nyiragongo

Goma è un po’ una moderna Pompei. Il grande vulcano Nyiragongo è eruttato nel 2002, coprendo tutta la città in un fiume di lava. E’ un vulcano effusivo, non esplosivo. La lava vi esce fluida, come un fiume micidiale. Ci ha messo ventiquattrore ad arrivare al lago, e nel frattempo la gente è evacuata. Si sono salvati quasi tutti, tranne quelli che non potevano muoversi. I vecchi, i malati. Un ubriaco che è rimasto in casa a dormire, mi dicevano. Gli altri han fatto su baracche e burattini e sono scappati. Ognuno dove poteva. Immaginate di avere ventiquattrore prima che la vostra casa sia sommersa da un fiume di lava. Non è proprio gradevole, come situazione.

Il vulcano Nyiragongo ha il bacino di lava più ampio del mondo, e la lava è la più veloce della terra. E’ uno dei pochissimi vulcani ancora attivi del Rift: un tempo ce n’erano un centinaio, ora una manciata. Con le loro eruzioni, nei secoli, hanno diviso il grande bacino d’acqua del centrafrica in moltissimi laghi. E’ in questo territorio mitico e unico che sorge il Nilo, in Uganda o in Burundi, dipende se si vuole considerare il primo o l’ultimo lago.

E il Nyiragongo fa ancora paura, non si sa quando erutterà di nuovo. Troneggia sulla città come un re, bellissimo e azzurro. Possente e maschile. In contrappunto perfetto con l’acqua del lago, così calma, così piatta. E i due sono indissolubilmente legati da un destino geologico comune, come marito e moglie.

Attimo

Ero sul macchinino scalchignato della mia collega russa, di notte. Lungolago, su quella strada tutta a sobbalzi, in Africa. Con musica pop sovietica, che ti fa sorridere anche se non vuoi. Col francesetto in macchina che commenta “eh bah - ça va pas mal, cette petite bagnole”. E io che pensavo che questa combinazione era semplicmente troppo bizzarra per essere vera. Troppo irresistibile per non continuare a sorridere.

giovedì 25 marzo 2010

Post filosofico

Una delle dispute piu’ rilevanti della filosofia medievale europea era quella tra il nominalismo e il realismo. I nominalisti dicevano che i nomi sono "flatus vocis", ossia non sono altro che dei suoni, che in modo arbitrario e convenzionale applichiamo a degli oggetti simili tra loro. Ad esempio, chiamiamo "sedia" tutti i manufatti prodotti per sedervisi. Al contrario, i realisti dicevano che i nomi si riferiscono a dei concetti, a delle idee. Chiamiamo "sedia" un concetto di manufatto fatto per sedersi, e tutte gli oggetti del mondo reale che vi somigliano (cioe’ le vere sedie) vengono chiamate allo stesso modo perche’ rimandano al concetto.

Questa differenza sembra un inutile e cavilloso gioco di parole, ma e’ il punto di partenza per ragionamenti molto concreti che portano a conseguenze radicalmente differenti. Se applichiamo questa differenza alla filosofia del diritto, ad esempio, troveremo due correnti. Coloro che pensano che la legge non e’ altro che una convenzione arbitraria che detta le regole di condotta degli uomini in societa’, puramente pragmatica e senza riferimento a astratti valori etici. E coloro che pensano che la legge e’ indissolutamente connessa a dei concetti astratti di bene e di giustizia, e che sono i valori universali che regolano attraverso la legge la condotta degli uomini. Una bella differenza.

Che c’entra tutto questo con il Congo ? C’entra. Oggi, chiacchierando con il nostro logista, ho scoperto che esiste una terza via, una terza concezione del nome che non ha mai attraversato – che io sappia - il pensiero europeo. Nella filosofia Bantu, i nomi non sono ne’ semplici suoni convenzionali, ne’ concetti universali con una loro sostanza. Sono piuttosto delle qualita’. Lui e’ alto, e’ Congolese ed e’ Omar. Una qualita’ fra le tante. E in quanto qualita’, si mette in relazione con altre qualita’. Se per esempio e’ facile che le persone dalla pelle scura abbiano gli occhi scuri (due qualita’ connesse) e’ facile che un certo nome si associ a certe qualita’ del carattere. Quindi se conosci una Caterina, o un Paolo, particolarmente gentili e sensibili, e ti auguri che i tuoi figli siano gentili e sensibili quanto loro, sara’ logico chiamarli Caterina e Paolo.

Il nome e’ parte integrante della cosa, ne’ una sterile etichetta, ne’ un richiamo a qualcos’altro. E quando nominiamo qualcosa, abbiamo il potere magico di cambiarla, di aggiungere una qualita’ che prima non c’era.

mercoledì 24 marzo 2010

Bye bye Kenya


Arrivederci Kenya, almeno per ora. Me ne vado con le tasche piene di piccoli, preziosi momenti da ricordare.

Come la vista dalle colline del Ngong e la visita della casa di Karen, con i mobili antichi e il famoso orologio a cucu’. Come le giraffe da accarezzare, creature gentili. Come il negozietto di arte africana in cui mi ha portato il mio Masai, in cui ho fatto la trattativa piu’ lunga e divertente della mia vita: un’ora intera a mercanteggiare il prezzo di un bellissimo batik. Esordire dicendo che vivo in Africa ha cambiato subito le regole del gioco. E che gioco! Lanciare prezzi contraddittori, fingere di andarsene, chiamare l’ultimo prezzo, farsi apprezzare come fellow African con le scarpe da ginnastica ancora infangate dall’ultimo giro sul campo.

Come un buon caffe’ all’hotel piu’ antico e lussuoso della citta’, in architettura coloniale. Come una passeggiata nella giungla urbana. Come un sushi africano con birra Tucker.

Come un ristorante eritreo dove io, M e K abbiamo mangiato con le mani. E poi siamo andate al cinema, dato che in Congo di cinema non ce n’e’ nemmeno a Kinshasa. Siamo arrivate con mezz’ora di ritardo e abbiamo trovato la sala chiusa: non c’erano clienti e non avevano proiettato il film. Ma noi abbiamo fatto chiamare il cassiere e l’abbiamo implorato di aprire la sala, solo per noi. E lui ce l’ha aperta per davvero. Cosi’, sole in tutto il cinema, ci siamo viste Alice nel Paese delle Meraviglie, che in un certo senso e’ la storia di tutte noi. E’ stato bellissimo.

lunedì 22 marzo 2010

Nairobi Sushi



Passeggiare a Nairobi


Nessuno si sognerebbe di dire che Nairobi e' una bella citta'. E' una grande metropoli, moderna ed eccitante.

Ho passato qualche ora a camminare per le vie del centro, ieri pomeriggio. Strade larghe, luminose, con alti edifici scintillanti. Non sembrava vero di essere in Africa. Era proprio come una citta' europea: macchine, bar, semafori, taxi e citofoni. Nella zona piu' periferica, certe strade alberate avevano un sentore quasi britannico, chissa' perche'. Era piacevole passeggiare, dava una sensazione di liberta'. La citta' non e' spaventosa come la si dipinge, e il nomignolo Nairobbery e' assolutamente esagerato. Se si evita di camminare da soli dopo il tramonto e si fa un po' di attenzione, andra' tutto bene.

La fauna umana di Nairobi e' interessante. Africani d'Africa nera, naturalmente, di cui l'occhio straniero non riconosce i gruppi etnici. Ma anche molti bianchi, turisti, uomini d'affari. E soprattutto una minoranza ben distinta di persone provenienti dal Corno d'Africa: Somalia, Etiopia, Eritrea. Li si distingue dalle fattezze diverse: la pelle piu' chiara, i corpi piu' longilinei, tratti misto-arabi che spiazzano leggermente, fuori dal comune. Si vedono donne velate, ogni tanto, alcune addirittura coperte fino ai piedi.

C'e' una cosa che mi ha colpito particolarmente, a Nairobi. Che poi e' la stessa cosa che mi ha colpito a San Paolo. Cioe' che a questa modernita' tanto familiare, si associa in modo alquanto bizzarro una luce gialla e intensa, un cielo piatto e largo e una vegetazione tropicale che straborda dalle aiuole. Le due citta', direi, sono abbastanza accomunabili. Metropoli subequatoriali, di un fascino disarmonico ma luminescente.

E infine, mentre passeggiavo, pensavo anche un'altra cosa. Pensavo che qualche mese fa avrei dato chissa' cosa per vivere qui, in una delle citta' piu' interessanti e vive del continente. Oggi invece, sento che questo posto non mi appartiene. Non mi interessano i ristornanti, ne' il traffico, ne' la musica, ne' i safari.

Sono innamorata del Congo, della mia Goma di fango. Della mia Goma opaca e rotta, dalle ferite ancora aperte.

domenica 21 marzo 2010

Masai

Ho trascorso l'intera giornata con un Masai. Alto, vecchio, che parlava un inglese incerto. Sul suo taxi bianco mi ha guidata ovunque, nei meandri di Nairobi, nei suoi sobborghi, indicandomi tutti gli altri Masai che vedeva per strada. "Come fa a sapere che e' quello e' un Masai?", chiedo io. "Lo capisco da come e' vestito". "E questa volta?", incalzo, quando indica dei normalissimi ragazzini che giocano a calcio. "Lo capisco dalla lingua che parlano".

Il mio Masai e' cresciuto ad Amboseli, alle falde del Kilimangiaro, e si e' trasferito in citta' solo durante l'adolescenza. Si chiama Laitere, che significa "colui che scende e poi risale". Era il nomignolo del suo prozio, un fiero capofamiglia che dopo essere caduto in disgrazia e' riuscito, con le sue sole forze, a risollevarsi e diventare ricco. "Aveva moltissimo bestiame", mi spiega Laitere, orgoglioso.

Il primo posto dove sono voluta andare, stamattina, prima del centro citta', prima del parco di Nairobi, prima di tutto, e' stato sulle colline del Ngong. Quele colline descritte cosi' meravigliosamente da Karen Blixen in out of Africa, dove e' stato sepolto il suo amante Dannys Fynch-Hutton. Laitere guidava sereno: quello e' territorio quasi sacro, per il popolo Masai, ed lui era contento di andarci. Nella loro lingua, Ngong significa "nocche", e difatti il profilo delle colline pare l'orlo di un pugno.

Una volta arrivati in cima, vedevamo tutto l'altopiano. E al bordo dell'orizzonte, Laitere mi indicava i grattacieli di Nairobi.

sabato 20 marzo 2010

Goma-Kigali

Scrivo da Kigali, la capitale del Rwanda. Punto di transito obbligatorio per prendere qualunque aereo, dato che le nostre misure di sicurezza proibiscono categoricamente l’uso di compagnie aeree congolesi. A Kigali si arriva in macchina, attraverso quattro ore di curve verdi, distese di colline infinite e campi di the. Quattro ore che passano in fretta, il paesaggio e’ cosi’ bello che non ci si crede. E’ giusto assaporarlo lentamente, senza parole, deliziosa intercapedine tra il gorgo grigio di Goma e tutto il mondo di fuori.

Il confine col Rwanda, a cinque minuti da casa mia, offre il primo stupore. Dopo due mesi di vita in una citta’ con strade da rally, con buche e massi e crateri che spezzano le schiene e gli ammortizzatori, trovarsi di punto in bianco su una strada asfaltata e’ spiazzante. Una strada perfetta, liscia liscia, con la riga bianca in mezzo e ai lati. Non me l’aspettavo, la riga bianca in mezzo. Mi sembrava un vezzo fuori luogo, uno schiaffo in faccia ai congolesi. Anzi tutta Giseny, la cittadina di confine, mi sembrava assurdamente leziosa. Col lungolago e le siepi potate e gli hotel chiamati Belvedere. Mi sembrava di essere in Liguria, con quella luce, quella costa tortuosa e boschiva.

Anche Kigali sorprende per contrasto. Con le sue strade ondulate di collina, il terriccio rosso e le donne in abiti colorati, trasuda Africa da tutti i pori. Eppure non ho nulla a che vedere con Goma e Bukavu. E’ ordinata, e’ curata, ha i semafori e i negozi e i cartelli stradali nuovi con scritte bianche a sfondo blu. Le aiuole con i fiori con le palme in fila, con l’orlo a striscie bianche e nere. Perfino l’aeroporto. Non capisco come possa essermi sembrato piccolo e povero, al mio arrivo. C’e’ un parcheggio con le striscie disegnate per terra, un bagno col sapone, e un bar con i croissants.

venerdì 19 marzo 2010

Scuola


Nonostante tutto, questa gente sa quello che vuole. Vuole educazione, vuole sanità. Vuole quello che vogliono tutti, mica sono scemi. Vogliono cio’ che il governo dovrebbe dargli di diritto, soprattutto contando che a Kinshasa i soldi non mancano. Invece qui non arriva nulla, lo stato non costruisce le strade, non paga gli insegnanti, non paga i dottori. I soldi non arrivano.

Alcuni genitori però non si arrendono, se lo stato non formisce una scuola, ne costruiscono una loro. Ci sono entrata, in una scuola costruita dai gentiori. Costruita proprio, hanno tirato su i muri col solito impasto di fango e mattoni e hanno messo un bel tetto di lamiera. Funziona, anche se fa un po’ di casino quando piove.

Gli insegnanti li pagani loro, auto-tassandosi. Quattro dollari al mese per babmino. La maggior parte delle famiglie è contenta di pagare, quando se lo possono permettere. Ma spesso restano indietro con le rette, e sperano che l’insegnante sia così motivato da non mollare il colpo, anche se riceve la metà del salario che gli spetta. Se hanno una bambina, magari la questione è meno importante. Nella scuola di 5000 alunni, solo 1500 erano femmine. Le priorità sono priorità.

giovedì 18 marzo 2010

Il lavoro umanitario

L’aspetto più bello del lavoro umanitario è che non è politico. O lo è poco. Non ci si schiera, non si prende la parte di nessuno. Chissenfrega del motivo per cui state litigando, io me ne sto qui a salvare le vite che voi cercate di distruggere.

Il lavoro umanitario è diverso dal lavoro di sviluppo. Lo sviluppo lavora sul lungo termine, propone modelli di crescita, insegna tecniche agricole, imposta sistemi di educazione, cerca di mettere in piedi sistemi sanitari. Il lavoro di sviluppo sogna di trasformare un posto malmesso in un posto dove la gente fa una vita decente. Lo sviluppo è meraviglioso, in questo senso.

Ma lo sviluppo è difficile, è vago, i suoi risultati non sono mai apprezzabili. Ci sono mille fattori che fanno fallire la maggior parte dei tentativi. E poi lo sviluppo propone, insegna, sviluppa, appunto. Passa la conoscenza, trasmette dei modelli. Dei modelli che non si sa mai se funzionano, là dove sono trapiantati. E apre tutta una serie di questioni filosofiche sull’opportunità di questi insegnamenti. Sulla differenza di culture, sul neocolonialismo. E’ tutto complicato, per chi decide di pensare.

Il lavoro umanitario è più semplice. Tu hai fame, io ti dò un panino. Tu scappi dal tuo paese a causa della guerra, io ti metto in un campo profughi dove per lo meno non muori. Ti costruisco delle latrine nelle scuole, ti faccio un pozzo al tuo villaggio. Così non devi farti 3 kilometri al giorno con un secchio sulla testa. Così non ti violentano sulla strada. Ti tappo un bisogno del momento, ti faccio sopravvivere oggi. E' un lavoro umile, senza pretese. Un lavoro trasparente. Ed è la sola cosa che non mi confonde, l’unica cosa che sono sicura che sia giusto fare. L‘unica cosa in cui so di non sbagliare.

mercoledì 17 marzo 2010

Fango


Settimana scorsa ho sperimentato uno dei grandi classici della vita sul terreno. L’embourbement. Ovvero, l’impantanamento. Succede sempre, e’ uno dei motivi piu’ citati per il fallimento delle missioni sul campo. Specie in luoghi remoti dalle strade impervie. Specie dopo la pioggia.

La strada sterrata si fa cosi’ piena di fango che perfino gli enormi macchinoni Toyota con quattro ruote motrici rimangono presi in quelle sabbie mobili. E allora si scende, si guarda, si spala la palta, si spinge la macchina. Che Dio benedica gli autisti, fanno un lavoro eccezionale e non si danno mai per vinti. Arriva la gente del posto, cinque bambini per ogni adulto, e mentre gli adulti ci aiutano i bambini osservano impressionati le persone dalla pelle « al contrario » che siamo noi bianchi. Ridono e scappano appena li guardiamo. Fa caldo e si comincia a fare il conto delle bottigliette d’acqua. Si spera che non ci sia pericolo, che non cali il sole. Per fortuna si viaggia sempre in convoglio, ci sono altri due veicoli che possono tirare o spingere.

I telefonini sono fritti in mezzo quelle montagne meravigliose. Verifichiamo se prende la radio, o il codan, cerchiamo i codici della base piu’ vicina, lanciamo il segnale. Ci siamo dimenticati a casa il telefono satellitare, accidenti. Se proprio non riusciamo a venirne fuori si puo’ sempre chiamare la MONUC, che è qui per proteggerci e aiutarci. Come settimana scorsa, quando la nostra collega e’ rimasta impantanata tutta la notte. C’era il fango che arrivava fino alle cosce, nemmeno l’ONU riusciva a tirarli fuori, ma almeno i caschi blu hanno fatto i turni di guardia durante la nottata e hanno portato da bere e da mangiare. Faceva un freddo cane in montagna di notte, mi dicono. E c’e’ sempre la paura che spuntino i gruppi armati, per questo hanno mandato a casa le ragazze. La coordinatrice invece e’ rimasta con i suoi uomini e coi militari su quella strada fangosa fino all’una del giorno dopo, alla faccia della paura.

Mentre sono immersa in questi pensieri sento d’un tratto delle grida festose, un applauso. La macchina e’ liberata, dopo due ore di sforzi. Menomale! Ma oramai e’ tardi, la missione e’ rimandata, dobbiamo tornare indietro. E’ contro il regolamento trovarsi in strada dopo le 4 del pomeriggio, e sono gia’ le 2. Sudati e sporchi, rientriamo alla base.

martedì 16 marzo 2010

Bambini II



Il giorno dopo invece è stato diversissimo, è stato meraviglioso. Sono stata circondata dai bambini tutto il tempo, ma questa volta nessuno mi ha chiesto nulla. Erano bambini che andavano a scuola, che venivano da una comunita’ piu’ solida. Giocherelloni, curiosi. Mi guardavano, stupiti, intrigati. Poi appena mi accorgevo di loro distoglievano subito lo sguardo, avevano paura di me. Ma io sorridevo, e così loro piano piano acquistavano fiducia. Rispondevano al mio sguardo, sorridevano. Ridevano, pure, dopo un po’. Ma non si avvicinavano mai troppo, sono troppo strana per loro. Al massimo mi tiravano un po’ i capelli. Questi lunghi capelli lisci e chiari, così strani. In questi villaggi non c’è la corrente, non hanno mai visto la televisione. Probabilmene hanno visto meno di 10 bianchi nella loro vita.

Durante la rappresentazione delle donne eravamo tutti seduti in cerchio, c’erano quasi solo bambini tra il pubblico. Io ero in mezzo a loro, loro erano ovunque intorno a me. Bambini africani, con le loro testine rasate, con grandi occhi neri dalle ciglia lunghe. Con le uniformi sgualcite, con i quadrenetti UNICEF e le penne bic nei sacchi di pastica, ecco la loro cartella. Con i dentini bianchi, con le ginocchia sbucciate. Denutriti, molti, così piccoli per la loro età. Dopo aver preso confidenza, alcuni mi si schiacchiavano addosso, volevano starmi vicino. Una bimba mi guardava intensissimamente, dolcissimamente. Un bambino mi sorrideva con i suoi denti da coniglio ogni volta che poggiavo lo sguardo su di lui. Non credo mi potrò mai dimenticare delle loro facce.

Io facevo foto ai bimbi, le scattavo e poi gliele facevo vedere. Loro si accalcavano tutti, per sbirciare nello schermetto della macchina fotografica. Volevano guardarci dentro, scoprire a cosa serviva. E davanti alla loro foto strizzavano gli occhi, si riconoscevano, e poi… scoppiavano in una risata altissima e argentina, tutta eccitata, come fosse una magia, un sortilegio scherzoso. E mi pregavano di farne un’altra, e si schiacciavano per entrarci tutti.

lunedì 15 marzo 2010

Bambini I

E’ incredibile. I bambini nei villaggi africani possono passare ore ed ore a guardati senza mai stancarsi. Anche se stai ferma. Ti guardano, fissi, insistenti, con i loro occhi che inchiodano. E se ti muovi, ti seguono. Qualunque cosa tu faccia, come fossi un’alieno, sciami di bambini che seguono ogni tuo singolo passo.

Nel villaggio in cui sono stata lunedi’ scorso, ho trovato i bambini irritanti, e a tratti spaventosi. Appena arrivata, la mia collega e l’autista sono scesi dalla macchina lasciandomi sola nella jeep per cinque minuti. In un baleno, ci saranno stati cinquanta bambini intorno a me. Che mi guardavano, facevano le facce. Mi chiedevano biscotti. Donne-moi les bon-bons, muzungu! O soldi. Donne-moi l’argent! Non facevano altro che chiedere, schiacciati intorno alla macchina. Io avevo paura che entrassero, che aprissero le portiere. Non vedevo l’ora di andarmene da quei nasi schiacciati contro i vetri.

Durante tutta la festa i bambini hanno continuato a venire da me, guardarmi, fissarmi, seguirmi. Senza mai toccarmi. Volevano vedere cosa facevo, chiedermi cose da mangiare. Non so chi abbia insillato nelle loro teste questa mentalita’ da accattoni, cosi’ poco dignitosa. Ad un certo punto faceva cosi’ caldo che sono andata a ridosso della scuola, all’ombra. Era un luogo nascosto, ma mi hanno trovata. Mi sono trovata una ventina di bambini davati, con gli occhi neri sgratati e puntati sulla mia faccia. Donne-moi l’argent, donne-moi les bons bons. Sono dovuta fuggire.

domenica 14 marzo 2010

sabato 13 marzo 2010

Pseudo-non-evacuazione

La mia prima settimana sul terreno si è conclusa in modo un po’ concitato: la lettera minatoria ha sortito il suo effetto.

Dopo aver ricevuto la missiva giovedì sera, noi quattro espatriati ci siamo raggruppati per discutere sul da farsi. Con un coprifuoco alle nove di sera, non c’è molto che si possa mettere in atto dopo il tramonto, se non contattare la gerarchia a Goma e a Kinshasa per avere istruzioni sul giorno seguente. La lettera era firmata da un gruppetto di associazioni che si chiamano la “società civile” di Rutshuru (il nome della regione), che dopo una serie di accuse verso la nostra organizzazione intimava di togliersi dai piedi nel giro di 48 ore, pena violenza contro di noi.

Delle accuse, la maggior parte era farneticante e infondata. Per esempio, dicevano che in una delle cliniche di villaggio da noi gestite sarebbe stato eseguito un parto cesareo in cui l’apertura sarebbe stata richiusa con lo scotch... Altre accuse erano più vicine alla verità. Per esempio si diceva che c’erano dei ritardi nei pagamenti del personale sanitario (ogni tanto capita) o che le cliniche erano sprovviste di medicinali (anche questo, ogni tanto, succede). Ovviamente, nulla che giustifichi né aggressività né tantomeno un ultimatum.

Attacchi a organizzazioni internazionali non sono cosa rara, nell’ambiente umanitario. Per quanto possa sembrare paradossale, le ONG sono pur sempre una parte attiva nel conflitto, anche semplicemente perché lavorano sotto la protezione dell’ONU. E poi portano soldi stranieri, operano in aree gestite da alcuni gruppi armati e non da altri, collaborano con il Governo e non con i ribelli, e trattano abbastanza quotidianamente con i gruppi etnici e religiosi ben specifici delle zone in cui lavorano. Tutto questo, accompagnato al fatto che siamo stranieri e quindi ben identificabili, che il popolo ignorante non sempre capisce “checcistiamoaffare”, che in questo clima di violenza la gente si fomenta con un nonnulla e soprattutto che abbiamo – eventualmente – soldi da spremere, fa sì che diventiamo facilmente dei bersagli.

Dopo varie consultazioni, è stato deciso di non prendere la cosa alla leggera. Nel 2008 una manifestazione contro le ONG nella stessa zona si è conclusa con un attacco al nostro ufficio da parte della folla inferocita. Non esattamente una situazione simpatica. Abbiamo quindi sospeso tutti gli spostamenti sul terreno, abbiamo chiesto a tutto lo staff nazionale di passare il fine settimana a Goma, e i responsabili di base sono andati a farsi una chiacchierata con l’amministratore regionale e con la MONUC. I caschi blu sono come sempre stati cavalieri, offrendoci alloggio per la notte della loro base militare. Da Kinshasa però è arrivato l’ordine di rientrare su Goma immediatamente.

E quindi eccomi a casa, sana e salva, mentre procedono le investigazioni. Dai primi studi, pare che non sia stato nulla di troppo serio, ma chiaramente si andrà avanti ad indagare. Nel frattempo, tutti torneranno al lavoro normalmente lunedì mattina. Non è stata un’evacuazione, quindi. Come l’ha definita R, è una pseudo-non-evacuazione. Ma per il mio battesimo sul terreno non è stata roba da poco.

Chi sei?


venerdì 12 marzo 2010

Stress?

Ci sono dei momenti in cui – sinceramente – perdo la pazienza.

Vada per la segnalazione della MONUC di ieri mattina, nel bel mezzo della nostra visita alla comunita’ sulle montagne : « Tutti i movimenti sul terreno sono sospesi a causa dell’imminente inizio di nuove operazioni militari ». E allora noi che ci catapultiamo alla base, tenedo gli occhi aperti per vedere se c’era l’esercito in giro, per poi scoprire che era stato un errore: il casino e’ nella regione a fianco.

Vada quando mi dicono che in ufficio c’e’ un ratto morto di cui si vede la coda che pende. Ci sono un casino di ratti in ufficio, vanno avanti e indietro tutto il tempo, sono piccoli e non particolarmente brutti (non come quello nella nostra cucina). Ma la coda di un ratto morto che pende fa proprio schifo.

Vada per la minaccia contro la nostra organizzazione che e’ stata recapitata nella nostra casella postale in ufficio ieri sera dicendo che abbiamo 48 ore ti tempo per evacuare se no ci sara’ violenza contro di noi. Il gentile messaggio e’ stato poi ripetuto nientemeno che per radio, il che non e’ esattamente tranquillizzante ma hey - niente panico. La nostra squadra di sicurezza si dara’ da fare per raccogliere tutte le informazioni necessarie e noi intanto oggi ce ne torniamo tutti a Goma senza fiatare.

Ma porca misera, quando vado in bagno a lavarmi i denti mi becco pure lo scarafaggio che sporge la zampina dal buco del lavandino. Questo e’ troppo ! Mi allontano disgustata e dico ad alta voce : I am going straight back to Milan!

mercoledì 10 marzo 2010

La festa della donna




Per la festa della donna, il nostro programme di Gender Based Violence ha organizzato delle manifestazioni in tutti i diciassette siti in cui operiamo. Lavorando con gruppi di donne locali, sono stati preparati dei piccoli spettacoli per sensibilizzare le persone del posto all’uguaglianza tra uomo e donna. Il Congo e’ conosciuto come « la capitale mondiale degli stupri » o « il peggior posto al mondo dove essere donna ». Il lavoro per noi non manca.

Lunedi’ e martedi’ ho visitato due villaggi, il primo era un luogo poverissimo ai piedi di una montagna triangolare e ipnotica, il secondo proprio al confine con l’Uganda, entrambi immersi nel verde intensissimo del Congo orientale. Le nostre donne vestivano il tessuto colorato che abbiamo fornito noi, come una sgargiante uniforme africana. Erano belle, e hanno attraversato tutto il villaggio cantando canzoni scritte da loro sul tema delle donne. Io ho partecipato alla marcia, camminavo a fianco a loro, sentivo le loro voci e i loro fischietti, il loro battere di mani mentre cantavano in Swaihili.

Una volta arrivate nei pressi della scuola del paese, le nostre ragazze hanno dato vita a piccole rappresentazioni sul tema della violenza domestica o dell’importanza dell’educazione per le bambine. Intorno a loro si e’ raccolto un grande pubblico : in questi villaggi sonnolenti, occasioni di divertimento come queste sono merce rara. Le rappresentazioni erano lunghissime, ma il pubblico non sembrava annoiato. In una cultura orale, forse la gente e’ piu’ abituata ad ascoltare. E poi ci sono stati giochi a premi, per chi indovinava le risposte a domande legate ai diritti delle donne. Era bello vedere la gente che partecipava, che ascoltava. Non tutti, e non tutti avranno colto il messaggio. Ma certamente qualcuno si’.

Mi bruciavano gli occhi per il riverbero della luce equatoriale, avevo le guance scottate dal sole, avevo caldo. E pensavo che non avrei voluto essere in nessun altro luogo al mondo che quel cucuzzolo sperduto. Mi sono sentita cosi’ fortunata ad avere un lavoro in cui credo. Pur con tutte le distorsioni che possono esistere nel mondo dell’umanitario, qualcosa di buono verra fuori da tutti questi sforzi. Ci credo fermamente. Nonostante tutti gli sbagli, le incompletezze, gli sprechi. Qualcosa si muove, tenace come la determinazione dei miei colleghi, come la mia. Come la determinazione di queste donne che danzano davanti a me nell’erba, per spargere un messaggio di giustizia, festeggiando l’8 Marzo.

Sono in Africa



Questa è la mia prima settimana di terreno, fuori da Goma. E le impressioni sono cosi’ tante che e’ difficile raccontarle. Suoni, luci odori. Persone, volti, sorrisi bianchi. Ferite, fango, pioggia. Montagne meravigliose, verdissime, paesaggi mozzafiato che nessun turista puo’ vantare di avere mai visto. Ore ed ore di strada sterrata, tornanti nel verde, suolo che si sbriciola, schiena rotta all’arrivo. Quante persone si rovinano la schiena su queste strade… Passando attravero i parco nazionale di Virunga, passando atttraverso i villaggi, dove i bambini ci salutano. E le donne ci sorridono, con i loro cesti in equilibrio sulla testa, dopo chilometri di cammino atraverso i campi. E i ragazzi ci gridano « muzungu, muzungu! » (bianchi , bianchi!). E pure i militari, con le loro uniformi verdi e i fuculi a tracolla, che ci scrutano seri.

Ma i bambini, soprattutto i bambini. Migliaia, vestiti di cenci, di pagne, di magliettine strappate. Piccolissimi, tantissimi, ovunque. Questo è un paese di bambini, i vecchi non si vedono. La meta’ della gente ha meno di quindici anni, su queste montagne. Bambini che salutano, che corrono in frotte, dietro alla macchina, cercano di aggrapparsi, l’autista accelera apposta per non farsi prendere, io guardo indietro a controllare e grido all’autista: « allez-y, allez-y, plus vite qu’ils arrivent!» . Bambini che ballano quando passiamo, che ci osservano circospetti, che fanno ciao-ciao con la manina, e se noi rispondiamo scoppiano a ridere. E passato un villaggio ne troviamo un altro, con caprette e maialini e galline in giro, nella terra rossa, nelle fronde verdi, nel cielo azzurro. Tra le case col tetto di paglia, coi muri di fango, nel sole del mattino. In Africa.

sabato 6 marzo 2010

Vicini di casa

Ho da poco ottenuto un documento speciale che mi permetterà di andare in Rwanda senza passaporto e senza visti. Torna utile, se si pensa che abito a pochi minuti dalla frontiera, e che in Rwanda c'è quel bell'albergo con piscina, spiaggia lacustre e caffè aromatizzati dove si va tanto volentieri la domenica.

Il Rwanda è un paese ricco, rispetto a qui. Ci sono le strade asfaltate, i campi coltivati. A Kigali ci sono pure un paio di centri commerciali. E poi è un paese sicuro, le nostre regole ci permettono addirittura di prendere i mototaxi. C'è una dittatura Tutsi talmente forte che non vola una mosca. Basta sollevare un attimo la voce e questi ti tirando fuori la storia del genocidio. Son quindici anni che lo nominano un giorno sì e un giorno no, il genocidio, per far tacere gli oppositori.

Qualche segno di insofferenza, però, comincia a venire fuori. Due settimane fa Kigali sono scoppiate un paio di granate, e l'altro ieri l'incidente si è ripetuto. C'è chi dice che Kagame può essere rimosso solo con le armi, visto che le parole non si possono usare. Forse. Fatto sta che le elezioni sono fra sei mesi. E il Rwanda continua ad essere - seppur bella infiocchiettata tra le sue milles collines - una bomba a orologeria.

venerdì 5 marzo 2010

Asta

A Goma, le organizzazioni umanitarie coordinano i propri interventi attraverso assemblee tematiche mensili in cui ci si comunica a vicenda “Qui fai quoi où” (chi fa cosa, dove). L’idea è semplice e intelligente, in un posto in cui operano decine di organizzazioni con mandati di assistenza simili e ci si deve spartire il territorio per non sovrapporsi. Le riunioni sono giustamente coordinate dall’ONU, che ha in generale un mandato di supervisione e organizzazione delle risorse umanitarie.

Detto questo, tali riunioni sono anche un interessantissimo punto di osservazione sul mondo dell’umanitario, inclusi i suoi aspetti più discutibili. L’ONU ha appena annunciato il disborso di un nuovo “grant” di qualche centinaio di migliaio di dollari. Neanche moltissimo, ma sono pur sempre soldi. Che verranno attribuiti all’organizzazione che presenterà il progetto migliore in ogni settore tematico prestabilito (salute, educazione, violenza sulle donne…). Ora, la cosa interessante è che la decisione sul progetto da premiare viene presa proprio durante queste riunioni, composte da rappresentati delle organizzazioni in gara. Quindi le ONG sono allo stesso tempo giudicante e giudicato. E qui comincia la buffa lotta per accaparrarsi i soldi.

Innanzitutto, a queste riunioni che di solito non fila nessuno, cominciano ad apparire tutti i pezzi grossi non appena viene lanciata la notizia di un nuovo grant. Poi, nella fase preparatoria (quando ancora non è stato detto quanto soldi verranno di fatto assegnati), il gruppo cerca di decidere delle priorità geografiche e dei criteri di selezione sulla base dei quali verranno giudicati i progetti presentati. Ovviamente, ognuno tira acqua al suo mulino. Quando si passano in rassegna le aree geografiche, sembra di partecipare a un asta. Tutti lanciano numeri “è una zona apriorità cinque!”, dice l’organizzazione che, guarda caso, vuole proporre un progetto in quella zona. “Ma no, al massimo è una priorità tre, non ci sono nemmeno i rifugiati”, dice l’organizzazione rivale. “Non ci sono rifugiati perché sono tutti scappati a causa della guerra”, si ribatte. E così via.

Non ci sono dati oggettivi, non ci sono ricerche precise. Ci provano tutti, a monitorare la zona, ma è impossibile. La guerra è troppo fresca, l’accessibilità è troppo ridotta. Non ci sono strade, il territorio è troppo vasto, non prendono nemmeno i cellulari. E poi ci sono i banditi, i gruppi armati. Insomma bisogna andare a braccio. E a braccio si va, anzi a gomitate.

Il giovane partecipante turco ride sotto i baffi. E’ qui da un anno, ha capito come gira la giostra. “La parola distribuzione va eliminata dalla lista di attività prioritarie. Bisogna sostituirla con cash transfert, che è più generale, più onnicomprensiva”, dice ad alta voce. Ma non ce la fa a stare serio. Lo sa che lo sanno tutti, che la sua organizzazione non fa distribuzione. Lo sa che ha una gran faccia di tolla, a proporre questa modifica. Ma non riesce a trattenersi. E’ troppo divertente per smettere di giocare.

giovedì 4 marzo 2010

Riflessioni sulla cooperazione

“La gente in North Kivu non è povera”, mi dice S. “Nessuno muore di fame, qui. Di gente che muore di fame ne ho vista, altrove. In Etiopia, in Somalia. Non qui, dove la terra è fertile, dove ci sono risorse minerarie”. S. lavora in una delle più prestigiose organizzazioni umanitarie del mondo, e prima di essere venuta in Congo ha lavorato in altri cinque o sei paesi africani. Non le piace più, Goma. Dice che siamo in troppi, che son tutti qui a fare beneficienza, che il popolo oramai è abituato ad essere assistito. Che basta passeggiare lungo il lago per essere fermati da decine di persone che chiedono soldi. Se hai in mano una bottiglietta d’acqua, chiedono acqua. Se hai in mano del cibo, cibo. Chiedono sconsideratamente, perché sono abituati a ricevere tutto dai bianchi ricchi. Per loro sei questo, un dollaro ambulante. “Per loro non sei una persona”, conclude laconica. Parole dure, che fanno male a chi ascolta.

L’amore-odio fra Congolesi ed internazionali è un fenomeno complesso, un rapporto malato. Ieri sera, durante il mio briefing introduttivo con il capo missione, sono stata avvertita. “Uno degli aspetti più difficili del lavoro in questo paese è il rapporto con i locali. Continuiamo a licenziare personale locale, perché tantissimi rubano. Una volta un intero camion di non-food-items è stato dirottato, tutto il suo contenuto venduto. Un nostro uomo si è messo d’accordo con dei banditi”. Era triste, mentre me lo diceva. Triste come la mia collega che sta per partire, che l’altra sera dichiarava di sentirsi completamente tradita dei suoi collaboratori. Persone con cui ha cercato di creare dei legami, di lavorare bene, e poi ha scoperto che le rubavano i soldi dal budget.

“L’organizzazione non può tollerare questi comportamenti, dobbiamo licenziare in tronco i colpevoli”, dichiarava, asciutto. Poi però ha aggiunto “Ma io, come essere umano, mi chiedo. E se fossi nato qui? Se avessi dei figli a carico e un lavoro precario? Se tutta la famiglia allargata si appoggiasse a me solo perché ho trovato un lavoro con degli internazionali? Se fossi abituato all’idea che bisogna approfittare di tutte le occasioni per mettere da parte dei soldi? Magari anche io avrei corso il rischio, avrei venduto della merce dell’organizzazione per guadagnarci qualcosa. Magari anche io avrei tradito questi bianchi che tanto fra pochi mesi se ne torneranno ai loro paesi”.

mercoledì 3 marzo 2010

A piedi

E invece no, ho scoperto che di giorno si può girare a piedi. Entro certi limiti, entro certi itinerari, ma si può. Non ci sono troppi pericoli, la città è tranquilla, basta applicare le norme di prudenza dettate dal buon senso. E così io e R oggi siamo andate al supermercato, a circa 20 minuti a piedi dalla Casa. Le vie di Goma sono anonime, grigie, roventi. La lava che ha seppellito la città una decina di anni fa distruggendola completamente si è trasformata nella massa sabbiosa e grigiastra su cui camminiamo. Ci sono bambini, un po’ ovunque. Bambini di strada. Che salutano, a volte, o ci seguono un po’. Al di là delle case si vede il vulcano, grande, maestoso. Una montagna alta, bluastra contro il cielo azzurro, con la cima piatta come un enorme tronco d’albero tranciato.

lunedì 1 marzo 2010

Network

La vita degli expats a Goma si svolge in un network di punti accessibili, seminati sulla landa indistinta della proibizione. La casa, l’albergo, l’ufficio. I bar degli internazionali, dove i prezzi dei menu sono espressi in dollari. I quartieri generali della altre organizzazioni.

Da un punto all’altro ci possiamo spostare solo se accompagnati. Ci sono una serie di macchine a nostra disposizione, con grossi adesivi di riconoscimento. Abbiamo i numeri, chiamiamo. Qualcuno compare alla porta, ovunque noi siamo. E ci porta, ovunque vogliamo.

In tutto questo di Goma non resta nulla, solo qualche visione fuori dal finestrino. Il traffico, le strade sterrate, le maman che camminano in gruppi, le motociclette, i baracchini strabordanti di merce varia. Scorre come un film, un mondo di fuori inaccessibile e scialbo. Fin quando non varchiamo un’altra porta, e non troviamo altri rassicuranti volti bianchi ad attenderci.