domenica 30 maggio 2010

CNDP in Nord Kivu


In Nord Kivu, la situazione politica è relativamente calma ma molto instabile. I fattori di questa instabilità sono molti, ma uno dei più importanti è il ruolo dell'ex "gruppo armato" rwandofono CNDP, che è stato integrato nei ranghi dell'esercito regolare congolese a seguito del trattato di pace fra Congo e Rwanda nel gennaio 2009.

L'integrazione dei soldati CNDP nel'esercito congolese è sempre stata un po' una beffa, dato che i soldati CNDP rispondono solo a gerarchie CNDP e praticamente costituiscono un braccio autonomo nell'esercito regolare. Hanno perfino un capo CNDP a Goma a cui riferiscono tutto e da cui prendono ordini, ignorando bellamente l'autorità di Kinshasa. Se poi si conta che i soldati CNDP sono infinitamente meglio equipaggiati e addestrati dei soldati congolesi regolari ("una marmaglia di briganti"), si capisce facilmente che l'alleanza non è proprio stabile.

CNDP controlla buona parte di Masisi e l'area di Rutshuru al confine con l'Uganda (quella in cui lavoriamo noi). Nelle zone controllate da CNDP, lo stato non esiste. CNDP ha creato un'amministrazione parallela che consiste nella raccolta di tasse, controllo della sicurezza e gestione del territorio. Fino a poco fa, l'amministratore ufficiale di Masisi non poteva nemmeno attraversare l'area CNDP: per andare a Goma doveva prendere l'elicottero. In ogni caso non fanno un pessimo lavoro, si dice che le zone amministrate da CNDP siano tutto sommato meglio organizzate che il resto del Congo, che sprofonda nell'anarchia. In Rutshuru CNDP è meno organizzato, ma presente, e si dice che voglia riprendere il territorio in mano.

Girano voci che CNDP in Masisi voglia creare un territorio etnicamente puro, popolato soprattutto da Tutsi rwandofoni. Per questo stanno cercando di scacciare tutti gli altri gruppi etnici che vi abitano, soprattutto quelli autoctoni (che parlano swaihili). Si dice che una grande ondata di Tutsi sa in arrivo dal Rwanda, fra 50,000 e 100,000 persone. Il Rwanda è uno dei paesi a più alta densità di popolazione del mondo e la terra comincia a scarseggiare. Questi Tutsi si insedieranno qui, nella roccaforte di UNDP, dove verrà offerta loro terra fertile a prezzi irrisori. E a quel punto vedremo che cosa succederà in Nord Kivu...

sabato 29 maggio 2010

venerdì 28 maggio 2010

Una settimana ai tropici

Prima o poi capita a tutti di prendersi una malattia tropicale. Eccoci, è arrivato il mio momento.

Tutto è cominciato, come da manuale, con una febbre altissima e improvvisa. Quando lunedì sera la temperatura è salita a 39.6, B mi ha scarrozzata al migliore ospedale locale per una consultazione d’urgenza. Sono stata scrutinata da una maman congolese in camice bianco, flemmatica e bonaria, che giusto per non rischiare mi ha diagnosticato la malaria. Era quello che mi aspettavo, e la cosa non mi ha particolarmente inquietato. Un giro di malaria ai tropici bisogna metterlo in conto, e se presa in tempo passa in massimo 3 giorni.

Certo che per te è facile stare tranquilla – diceva la mia coscienza - sei a Goma e hai 80 dollari da spendere in cure mediche. Se fossi una Congolese povera o campagnola potresti pure morire.

Prendo il tutto con fare procedurale, come si trattasse di un iter burocratico. Oggi comincio la cura, domani faccio l’analisi del sangue. Visto che siamo in Congo, i risultati arrivano dopo 24 ore al posto che due. Pazienza, che ci vuoi fare? Se non fosse che mercoledì mattina scopro che in fin dei conti non ho affatto la malaria, ma la febbre tifoide. Ergo, sono stata per due giorni in cura per la malattia sbagliata! La cosa dapprima mi irrita, poi decido di prenderla con filosofia. E va bene, rifacciamo tutto da capo. Ovviamente non è che fossi un fiore, avevo una febbre da cavallo che tenevo bassa con chili di paracetamolo, nausea e un mal di testa lancinante. Mi faccio prescrivere gli antibiotici e dopo un’ora di fila riesco a comprarli all’ospedale locale. Vado a casa, mi faccio le mie dosi. E quella sera – voilà - comincio a stare malissimo. Non il male solito della febbre, molto peggio. Il mio corpo rigetta l’antibiotico. Chiamo il medico dell’assicurazione a Londra, che mi dice che è fondamentale che io prenda tutte le medicine. Se il mio corpo le rigetta oralmente, bisogna prenderle in vena. E in Congo non si prende niente in vena, quindi se continuo così mi dovranno trasferire altrove.

Come si farà a trasferirmi altrove, se il mio passaporto è a Kinshasa per fare il visto di residenza? E perché diamine ci mettono più di un mese a Kinshasa a fare un benedetto visto?!?

A quel punto perdo un po’ del mio sangue freddo. Chiamo subito B, gli spiego la situazione. Lui si precipita in camera mia, dove mi trova KO. Comincia il giro di telefonate a Kinshasa per chiedere il da farsi. Viene fuori che la soluzione ideale sarebbe quella di farmi intrufolare nell’ospedale militare della MONUC, anche se tutti sanno che le ONG non vi hanno accesso. Come ovunque nel mondo, quando le cose non funzionano si può solo contare sui contatti personali. B chiama il comune amico E, R chiama Dr. N. Il piano funziona, in via eccezionale vengo fatta entrare per una visita al volo. Varcato il cancello, i medici mi tempestano di domande. Io rispondo, raccontando tutti i passaggi della mia eccitante storia. Sto malissimo e spero che mi ricoverino, mentre loro dibattono se tenermi o no. “Non si potrebbe, è un ospedale solo per personale ONU”. “Sì, ma è un’emergenza”. “Sì, ma la tifoide ce l’hanno tutti, che emergenza è?”. “Sì, ma lei sta supermale poveraccia”. “E vada, facciamola restare”.

Errata corrige. Non sono solo le congolesi povere e campagnole a essere spacciate. Pure quelle urbane e benestanti sono messe male. Se dovessi contare sull’ospedale locale sarei fritta. Menomale che sono straniera.

Vengo depositata in una sala piena di militari feriti, ma con un piccolo paravento per farmi da schermo. I dottori confabulano varie ipotesi rispetto a cosa io possa avere e mi informano che del test fatto all’ospedale locale non ci si può fidare, lo dobbiamo ripetere. Per le ore seguenti vengo assistita da un’infermiera-angelo che mi somministra mille medicine, mezza pastiglia alla volta, mentre la flebo lentamente mi restituisce al mondo.

Giovedì mattina mi sveglio e mi sento un’altra, sto infinitamente meglio. E alla luce del giorno mi rendo finalmente conto della stranezza del posto in cui mi trovo. L’ospedale è gestito dal contingente indiano della MONUC: guardie, infermieri e dottori vengono dal Subcontinente. Alla televisione trasmettono un film di Bollywood e i manifesti alle pareti sono in Hindi. L’infermiera-angelo ha una targhetta sul petto che dice Indian Army. Dottori in tuta mimetica arrivano a prelevarmi il sangue e farmi l’ecografia, per poi confermare che si tratta davvero di tifo. Quando mi dicono che mi vogliono tenere sotto osservazione per altre ventiquattr’ore io m sento sollevata. Finalmente sono in buone mani. Mi fanno mangiare qualcosa, sono a digiuno da ieri mattina. E mentre addento un pezzo di chapati, sento un sussurro dalla sala di fianco: “Psss… There is a lady in the breakfast room!

sabato 22 maggio 2010

Gym

Sono andata in palestra a MONUC, la Missione dell’ONU in Congo. E’ l’unica palestra in città, piccolina ma funziona. E visto che qui camminare è impossibile, questo bugigattolo è l’unico posto dove ci si può muovere. Certo, è strano andare in palestra passando attraverso il cancello sorvegliato da guardie armate in tuta mimetica. Salire sullo step di fianco a militari che accarezzano il punjibol. Vedere negli spogliatoi le stesse persone che hai visto al meeting dell’UNICEF, la mattina. Le stesse che hai visto ballare ubriache alla festa del sabato prima. E poi uscire e trovare l’autista che attende, mentre le guardie ti salutano sorridendo, con il mitra a tracolla.

Leggenda Swahili


In Kiswaihili, asino si dice “punda”. E anche zebra si dice punda. In effetti sono praticamente lo stesso animale, solo che hanno colori diversi. Almeno per gli swahili. A loro parere la diversità è nata quando il pittore Wapi si è recato da due punda e ha chiesto chi di loro volesse essere dipinto. Quello più intraprendente, che ha accettato il rischio di mettersi nelle mani del pittore, è diventato una bellissima zebra. Quello più scettico è rimasto un semplice asino. Quando l’asino ha visto la zebra, ha cominciato a piangere e lamentarsi. E infatti nella lingua Kiswaihili, il verso onomatopeico dell’asino si pronuncia "Wapi Paka", che letteralmente significa: "Wapi torna qua!".

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giovedì 20 maggio 2010

Straziante addio!

Quando un congolese lascia un posto di lavoro, non lo fa discretamente. Qui non è uso mandare un breve messaggio email ai propri colleghi, ringraziando per la bella esperienza e augurando il meglio per il futuro.

Il congolese scrive il suo prolisso addio strappandosi i capelli in un grido di dolore. E lo fa mettendo in copia tutti gli ottocento dipendenti dell’organizzazione, anche quelli che lavorano in altre province, anche quelli che non ha mai conosciuto né conoscerà mai. Non importa il suo grado gerarchico, tutti devono sapere che oggi è l’ultimo giorno di lavoro dell’aiuto-magazziniere di Lubumbashi.

Di protocollo, le mail di fine lavoro contengono i seguenti elementi. Primo, un accorato addio declamatorio. Secondo, un riferimento a Dio onnipotente che benedica il sottoscritto e i destinatari. Terzo – tenetevi forte – un apologia per tutte le volte che si possa aver offeso qualcuno: che lo si perdoni alla luce del fatto che non siamo creature perfette.

A queste solenni email – in media una la settimana – non mancano di aggiungersi le risposte dei commossi colleghi, che naturalmente decidono di condividere il loro trepidante saluto con i famosi ottocento dipendenti di tutte le sedi. Le risposte a loro volta complimentano, benedicono e chiedono venia per eventuali screzi occorsi sul lavoro. E a volte includono anche una scusa per il disturbo a tutti i destinatari, "ma di fronte alla partenza di tale esimio collega proprio non si può tacere".

Quando la catena di messaggi si fa esageratamente ridondante, finalmente interviene il responsabile IT. Che sgrida gli scrivani tacciandoli di abuso comunicativo. Che ricorda che le loro mail vengono lette da centinaia di persone che non li conoscono. E come atto definitivo del suo richiamo all’ordine, lancia la più terribile delle minacce. Al prossimo che manda un messaggio futile, verrà bloccato l’account per quattro ore di fila.

mercoledì 19 maggio 2010

Preservativi

In un certo senso, e’ buffo tutto il baccano che si fa attorno ai preservativi. Questi banalissimi ritagli di lattice con un eslastico, che in un colpo solo risolvono il problema delle gravidanze non pianificate e delle malattie sessualmente trasmissibili. Vuoi mettere quanto sarebbe utile fare una mega-campagna di promozione, se fossimo tutti d’accordo ? Convincere un intero continuente di una cosa non e’ difficile, basta avere i mezzi e non mandare messaggi contraddittori. All’epoca della colonizzazione abbiamo cristianizzato tutti quanti, senza troppe storie. Lo stesso impegno si potrebbe applicare alla promozione dei preservativi e al controllo delle gravidanze. E invece no.

Mentre studiavo le regole dei nostri donatori, ho letto che con i soldi provenienti dal Governo Americano e’ proibito comprare armi, alcohol e preservativi. « Pure in un programma di salute riproduttiva ? », ho chiesto stupefatta. « Pure ». Una regolina messa da Bush. Poi in realta’ non e’ che si rispetti alla lettera, gli americani chiudono un occhio. Pero’ la regola e’ li’, nero su bianco, archiviata su tutti gli scaffali di tutte le organizzazioni non governative del mondo.

Se questo avviene con i donatori di Washingoton, lascio immaginare cosa succede a livello locale, sulle montagne congolesi. Nel territorio in cui lavoriamo noi, che e’ controllato dalla chiesa cattolica e dallo pseudo-partito/ex-gruppo-armato CNDP, un prete ha ben pensato di boicottare le nostre attivita’ di protezione delle donne perche’ ci infanghiamo del crimine osceno della distribuzione di preservativi. E non solo il tasso di partecipazione alla nostra sensibilizzazione e’ crollato, ma pure il gruppo di donne che la conducono sono entrate in crisi, poverine. A fine giornata ci hanno detto che se il prete glielo proibisce, smetteranno di collaborare con noi.

E qui lo so, sono banale, sono trita e ritrita, sono ovvia come chissa’, ma non ce la faccio a non domandarmelo. Ma la Chiesa, per cui sotto tanti aspetti nutro sincero rispetto, si rende conto di quello che sta facendo? Si rende conto dei danni concreti e disastrosi su milioni di vite, che conseguono da una presa di posizione tanto stupida, cieca, arcaica e testarda ?

martedì 18 maggio 2010

Conchiglie

L’Africa Orientale mi chiama. La voglio conoscere meglio, le voglio parlare. In due settimane in Kenya mi è sembrato di capire di più di questo continente di quanto non abbia fatto in tre mesi a Goma. In Congo lavoro tanto, e il tempo che non trascorro in ufficio lo passo con altri espatriati come me. Dal punto di vita professionale, è magnifico. E’ un crash course sull’umanitario. Ma l’Africa la tocco poco. Non ci affondo le mani fino al polsi, in questa terra nera di Goma.

In Kenya è stato diverso. Il Kenya è un paese vero. E’ un paese che vive in sé, coi suoi ritmi e i suoi suoni e i suoi colori. Con la sua vita africana scandita, di cui devo imparare il tempo per poterci ballare sopra. In Kenya sono stata una straniera, non una musungu. Straniera, come quando vado in Francia, in Belgio o a Trinidad e Tobago. E sono stata trattata come tale. Con accoglienza, con diffidenza, con scherno, a volte. Ma mai con servilismo, né con risentimento. Nessun complesso di inferiorità/superiorità ha intralciato i miei rapporti umani. Per la prima volta da quando ho messo piede su questo continente, mi sono sentita sollevata da un enorme peso. Non ero una bianca, né un’operatrice umanitaria. Sono stata una semplice donna, persa in un mondo nuovo tutto da esplorare.

Mi manca già, questo dialogo che ho appena cominciato. Lo cerco nei libri, nei film, negli articoli di giornale. Lo cerco nei ricordi degli altri viaggiatori. Sento che l’Africa canta come una sirena, e non so resistere al richiamo. Mi ci voglio tuffare, scendere in profondità, affondarci dentro. E raccogliere le conchiglie sul fondo del suo abisso.

lunedì 17 maggio 2010

Viaggio

Sono tornata. Da un viaggio in East Africa, quella della savana e dei leoni, degli alberi di acacia, dei cuccioli di elefanti nell'alba rossa del Kilimanjaro. Delle cittadine luride sulla strada per Mombasa, della costa swaihili dalle case immacolate e le bouganvillea. Di downtown Nairobi dall'anima sporca, coi diners vuoti e le strade piene di tipi loschi alle undici di sera. Della tenda di notte sotto le stelle e di giorno sotto l'arcobaleno. Dei masai che non sorridono mai, che camminano a Norok con le loro vesti rosse e i lobi allungati. Che cantano sommessi la sera e saltano quando sono contenti. Dei kikuyu che non sanno la differenza fra la L e la R e dicono I was eating my lice disturbed by the fries. Dei matatu colorati e pieni zeppi di persone a 30 scellini la corsa. Del traffico e dei venditori di cianfrusaglie ai semafori. Della shisha nei locali per espatriati. Dei passanti che se chiedi un'informazione insistono per accompagnarti a destinazione, e se non sanno la strada telefonano ai loro amici per chiedere a loro. Del mercato nero gestito dai somali e degli alberghi di lusso che mercanteggiano il prezzo delle stanze fino all'ultimo dollaro. Dei laghi di fenicotteri e dei chilometri e chilometri di strada sterrata senza vedere anima viva. Della Rift Valley, dei campi di the. Di un rinoceronte ferito, così grande, così nobile e così fragile. Delle iene che in realtà sono belle. Di un posto di pura bellezza e autentica eleganza che ho ritrovato intatto dopo quattordici anni, colmo di ricordi. Degli uccelli tristi. Delle zebre magiche. Delle cicale. Di un ostellino di Nairobi dove ho seppellito le mie scarpe e il mio passato. Del parco di Amboseli e delle sue piste di sabbia, che abbiamo percorso meticolosamente, che abbiamo conosciuto profondamente, che abbiamo posseduto integralmente. Che abbiamo amato terribilmente, come fosse l'ultima volta.