martedì 30 novembre 2010

Ritorno

Come al solito, Kin e' stata una scarica elettrica. Sto ancora vibrando. Anche dopo aver attraversato tutto il Congo, sull'aereoplanino dell'Humanitarian Aviation Service, guardando distese di terra verde senza uno straccio di presenza umana. Con fiumi bruni e sinuosi come serpenti, con foreste vergini e inesplorate. Anche dopo essere atterrata a Kalemie, in Katanga, sulla costa del lago Tanganiyka, dove la pista dell'aeroporto e' cosi' piena di buche da trovarsi a tenere il fiato stringendo i braccioli del seggiolino. E perfino dopo essere atterrata a Goma, la mia Goma, una distesa di baracche con tetti di metallo corrugato e villette a bordo lago. Goma dall'aria pulita, senza i vapori tropicali della capitale. Col lago azzurro pastello, le strade sconnesse e il Nyragongo che troneggia all'orizzonte, nitido e assoluto. Anche dopo tutto questo, il Kin beat mi sta incollato addosso.

I tramonti sono rossi, a Kinshasa. A Goma sono rosa.

venerdì 26 novembre 2010

La gym

Due esperienze di palestra a confronto.

Ingresso
Goma: Arrivo al quartier generale della MONUSCO, saluto la guardia che oramai mi conosce per nome.  Consegno il badge che indica che lavoro in una ONG, attraverso il metal detector. Guardie armate mi controllano lo zaino. Io sbuffo perche' sono gia' in ritardo e cosa credono che mi porti, in palestra, una bomba a mano? Corro nello stabilimento, cercando di ignorare il gruppo di quindici soldati uruguaiani che stanno sempre al cancello all'orario di aerobica, per poter guardare il sedere delle regazze che lavorano nelle ONG.
Kinshasa: Arrivo a Symphonie des Arts, una galleria d'arte e centro culturale. C'e' un giardino stile fiaba costellato di oggetti in ferro battuto e pietra che provengono da tutti gli angoli del Congo. Lampade a petrolio a forma di campanula creano piccole bolle di luce gialla. Dalla porta laterale esce un gruppo di bambine in tutu' rosa. Hanno finito la loro lezione di ballo e tornano a casa a fare i compiti.

Corso:
Goma: Saluto P, l'istruttore. E saluto tutte le persone che conosco, piu' o meno la meta' dei partecipanti. Attacca la musica, e sorrido: e' sempre lo stesso CD, ogni singola volta. Cominciamo a saltellare, e io inevitabilmente penso che e' il tipo di aerobica meno femminile che abbia mai fatto. Sembra piu' un allenamento di pugilato. La stanza e' stipata, ci sono tutte le tappette uruguayane che vogliono partecipare senza aver preso in considerazione che per fare questo corso ci vuole un minimo coordinazione. Ma hanno delle magliette con scritto Uruguayan Army troppo belle e mi faccio un'annotazione mentale: alla fine del corso devo chiedere se sono in vendita. Intorno a noi i soldati fanno i pesi, fanno le flessioni in verticale. Prendiamo gli step, veri step da ghetto, fatti di legno da qualche artigiano locale. Quando piove gocciola dentro dal tetto in lamiera.
Kinshasa: La sala e' bella e spaziosa, il pavimento di legno chiaro e' pulito. L'istruttrice e' una ragazza tedesca eterea, bionda con gli occhi azzurri. Usa un microfono durante il corso. Siamo tutte ragazze, tutte con abiti da palestra comprati in qualche negozio occidentale stile DimensioneDanza. I tappetini sono di marca, altro che quei brandelli di moquette impolevarata che usiamo a Goma. E la musica e' del terzo millennio.

Uscita
Goma: Vado da P e gli dico che il corso e' bello ma non ce la si fa piu' con sempre la stessa musica. Lui risponde che quel lettore legge un CD solo. Io ribatto che non e' possibile che l'ONU non abbia i soldi per comprare un nuovo lettore CD. Lui dice che i soldi ci sono ma il processo di acquisto dure almeno sei mesi, e fra sei mesi chi di noi sara' ancora qui? Torno a casa sulla solita jeep bianca. Apro la porta di camera mia e penso che mi sono scordata di chiedere della maglietta.
Kinshasa: Visto che c'e' un bagno, lo uso per cambiarmi. Sarebbe bello avere uno spogliatoio e delle docce, ma non si puo' mica avere tutto. Mi trovo circondata da vestitini di bambine appesi dappertutto, foto di saggi di danza. Al lavandino trovo uno specchio e una saponetta profumata.

mercoledì 24 novembre 2010

Kinshasa!

Sono di nuovo qui, nella capitale! E sono eccitatissima. Questa citta' mi elettrizza, mi scuote, mi diverte. Nessuno ci crede, quando dico che adoro Kinshasa. Pensano che sia matta. Kinshasa e' enorme, sporca, piena di traffico. Una citta' brutta, fatiscente, corrotta. Ma io la trovo una citta' incredibile, assolutamente eccezionale. Eccessiva, sensuale e svergognata come una vecchia prostituta. Con i suoi ristoranti di lusso, posate d'argento, sughini francesi. Il boulevard a otto corsie in pieno centro che non smette mai di fare rumore. Il traffico, i clackson, i venditori ambulanti. La musica, la rumba, la vita notturna. La sporcizia, la criminalita', gli edifici che cadono a pezzi.  I matatu gialli e blu che scorrazzano dappertutto, sgangherati, pieni zeppi di gente stipata come sardine. Cosi' pieni che vanno in giro col portellone laterale apero e la gente appesa fuori. E qualche volta il portellone e' pure rotto e i passeggeri lo devono tenere in mano, sollevato, per non farlo cascare sul pavimento con un tonfo alla prima curva. E in tutto questo casino tutti si vestono benissimo, ricchi, poveri, tutti di un'eleganza sconcertante. Come se quest'obbrobrio di Boulevard fossero i cazzo di Champs Elysees.

martedì 23 novembre 2010

Partnerships

Ogni tanto vado sul terreno. Quasi mai, devo dire, ma a volte capita. Qualche settimana fa sono andata a visitare i partner per il nostro progetto di gender based violence. I “partner” sarebbero delle piccole organizzazioni locali che offrono servizi psicosociali e di aiuto legale alle vittime di violenza sessuale nei villaggi.

Questa e’ la politica della mia organizzazione. Non offrire servizi direttamente. Piuttosto, agire attraverso organizzazioni Congolesi, anche se sono disastrose. Anche se hanno i loro centri in capanne di fango e agenti che hanno a malapena finito la scuola elementare. Noi li istruiamo, insegnamo a tenere i registri, a raccogliere i dati, a offrire supporto psicologico in modo confidenziale, a indirizzare le vittime all’ospedale in caso appaiano segni di valattie vaginali. Non funziona in modo perfetto, anzi. I centi che ho visto mi hanno abbastanza delusa. Sono poveri, incasinati, isolati. L’assistente psicosociale che era li’ e’ stata redarguita dalle nostre osservatrici. I documenti non erano a posto, non erano tenuti sottochiave, e il colloquio con la vittima al quale abbiamo assistito e’ stato sommario, poco approfondito. Ci sono rimasta male. « Ma cosa mi posso aspettare da questa donna, che sa a malapena leggere e scrivere, che non parla francese, che si porta il suo bebe' al lavoro in un cestino che rimane sul pavimento di terra battuta tutta la giornata ? », mi chiedevo. E poi, emergeva il pensiero immediatamente consequente. « Non sarebbe molto piu’ facile per noi offrire un servizio di qualita’ mandando il nostro staff, nei villaggi, a offrire consulenza alle donne violentate ? Il nostro staff ben pagato e istruito? Come fa Medici Senza Frontiere, per esempio? ». Il pensiero mi tenta.


Ma poi mi dico che no, non sarebbe giusto. Questa sembra una buona idea, ma non la e’. Perche’ utilizzare il nostro staff significherebbe offrire un servizio temporaneo, che dura fin quando abbiamo i finanziamenti, e quando i donatori smettono di pagare si raccolgono baracche e burattini e non rimane nulla sul terreno. Invece cosi’ contribuiamo a migliorare un servizio che potenzialmente restera’ per sempre. E poi c’e’ una seconda ragione. Offrire servizi diretti e’ assistenzialista. E’ neocolonialista. Ci-pensano-i-muzungu-a-risolvere-i-problemi. No, non va bene. Il Congo va avanti da quindici anni a ricevere questa assistenza tappabuchi, e siamo ancora al punto di partenza. Bisogna cominciare a responsabilizare loro, i Congolesi. Ad aiutarli ad aiutarsi da soli. A supportare le loro piccolo iniziative sociali in modo sostenibile. Inshallah, i risultati verranno fuori col tempo.

lunedì 22 novembre 2010

Eccomi

Sono mesi che non scrivo, e non e’ facile spiegare il perche’. La cosa piu’ semplice da dire e’ che dopo sei mesi di adrenalina e’ arrivato l’inevitabile esaurimento. Ho avuto un’indigestione emotiva, a Goma. Non e’ successo nulla di traumatico per se, e’ stata semplicemente una questione di intensita’. Vivere mi consumava gia’ troppo per avere l’energia di scrivere quello che vivevo. Era un’inutile dupliazione. Un’esposizione di me che mi lasciava troppo vulnerabile. Cercare le parole e’ un po’ come eseguire un’operazione chirurgica : e’ complicato, scava in profondita, e lascia una visibile cicatrice. Ma puo’ anche salvare la vita, ed e’ per questo che ritorno. Perche’ senza la bussola delle parole mi perderei in questo luogo senza punti di riferimento.

E allora ricomincio, mi metto alla tastiera e mi domando. Come mi sento, adesso?

Devo essere sincera. Direi che mi sento ridicola, rileggendo cio’ che ho appena scritto. Per essermi espressa in modo cosi’ grave. In fondo sono una privilegiata, ho una vita comoda. Come posso lamentarmi, io che me sto a Goma, mentre tanti miei colleghi umanitari se ne stanno in veri buchi, a Masisi, a Walicale, con una stanza sola per casa e ufficio e senza acqua corrente? Con problemi di sicurezza veri, a cui hanno sparato addosso? E mi basta mettere il naso fuori casa per rendermi conto ogni giorno di quanto sia fortunata, quanto viva nella bambagia. Ma poi decido di essere un po’ piu’ indulgente con me stessa, un po’ piu’ comprensiva. Sentirmi provata e’ un mio diritto, non me ne devo vergognare. E mi sforzo di tenere a mente che proprio l’altro giorno stavo viaggiando, prendevo aerei in citta’ civilizzatissime come Nairobi e Dar Es Salaam. Chiacchieravo con miei vicini di fila al check in, coi compagni di seggiolino. Gente che lavora a Pretoria, che fa viaggi di lavoro a Kampala. Che conosce l’Africa, per i quali l’Africa e’ un posto normale, dove si fanno affari, dove si viaggia con la ventiquattr’ore. E quando mi chiedevano dove andassi, e io rispondevo Congo, loro inevitabilemente sbattevano le palpebre, alzavano il sopracciglio, e dicevano : « Congo-Braza, I suppose… », riferendosi all’altro Congo, il piccolo paese costiero e stabile che ha per capitale Brazzaville. E io rispondevo : « No no. Congo-Kinshasa ». Al che seguiva un’altra breve pausa e poi, annuendo gravemente, commentavano. « Accidenti ».