venerdì 30 aprile 2010

Vita di piazza a Lamu


Swahili


Il ventilatore, l’odore di salsedine, le mosche. Siamo sui tropici, al nord del Kenya, a pochi chilometri dalla Somalia. Siamo in Africa, e allo stesso tempo non siamo in Africa. Gli abitanti hanno la pelle scura, parlano inglese con un accento africano, e ogni tanto si intravedono dei masai, nei mercati, sulla spiaggia. Eppure siamo già in Medio Oriente. Le case sono bianche e hanno i tetti piatti, i muezzin chiamano alla preghiera cinque volte al giorno dalle trenta moschee sparse sull’isola, e le donne camminano coperte di un velo nero che le copre fino ai piedi. Gli uomini indossano lunghe tuniche bianche, sandali piatti e un caratteristico cappello di stoffa, cilindrico e basso, chiamato kofia.

La civiltà Swahili è nata qui, terra di confine tra Africa e Oriente, terra di commerci, di spezie, di schiavi, di vetro. Dopo un dominio Portoghese leggero come l’aria, che ha commerciato senza conquistare, Lamu è diventata una repubblica indipendente, ricca e fiorente. E’ solo in seguito che si è abbandonata alla conquista del sultanato di Oman, che è arrivato a prendere tutta l’Africa Orientale, dalla penisola Araba al Mozambico, con capitale Zanzibar. Una costa unificata sotto il segno del mare, del viaggio, dello scambio, lato occidentale di tutta la rete di traffici che univa come una ragnatela i grandi porti dell’Oceano Indiano. Mombasa, Zanzibar, Goa. Shangai, Jakarta, Mombai.

E così è nata una civiltà a sé stante, diversa da tutto, fiera, vivace. Il kiswaihili è la sua lingua e il suo tratto più determinante. Una lingua bantù, dal cuore puramente Africano, che è stata sporcata, integrata, impreziosita, da vocaboli arabi e portoghesi. Una lingua bella da ascoltare, dal regime fonetico non dissimile dall’italiano. Una lingua che si è levata al di sopra di tutti i dialetti indigeni perché la sua forza commerciale l’ha resa lingua franca in tutta l’Africa Orientale. Oggi è la lingua ufficiale della Tanzania, dove è parlata nella sua versione più pura. E del Kenya, e dell’Uganda. Ma arriva fino al Congo Orientale, fino a Goma, dove esiste in una forma francesizzata. E c’è chi mi ha detto di averla sentita adoperare un po’ ovunque, fino in Nigeria, tra due commercianti che non avevano altra lingua in comune.

Travaux communautaires

Il Rwanda è un mondo a parte rispetto al Congo Orientale. I Congolesi sono anarchici e sanguigni. I Rwandesi invece sono disciplinati. Non sono un popolo individualista, non si battono per la supremazia, sono facilmente irreggimentati. In tutto, nei genocidi come nelle dittature. Almeno così vuole lo stereotipo.

Lungi da me alimentare gli stereotipi, soprattutto quelli così grossolani. Per quanto mi riguarda non sarebbero neanche da scrivere, nemmeno come nota di costume. Però c’è un dettaglio, in questo stereotipo, che mi pare interessante e degno di nota. E questo dettaglio è una prova.

Un sabato al mese, per legge, i Rwandesi devono dedicare la mattinata ai lavori comunitari. Ossia si devono riunire in gruppi di quartiere e adoperarsi tutti assieme per un’opera che benefici la comunità. Riparare una strada, pulire le aiuole, aiutare un membro della comunità in un lavoro di ristrutturazione. Questa pratica, inizialmente solo tradizionale, è ora una legge a cui tutti devono obbedire. Un legge che ovviamente ricalca, ribadisce e inneggia a uno spirito collettivista preesistente. Che conferma la priorità del gruppo su quella dell’individuo.

What democracy means

Qualche giorno fa, ho trascorso una serata a Kigali. Kigali è bella, ordinata, piena di fiori. Circondata da mille colline divise in appezzamenti di terra regolari, morbide curve verdi chiaro coperte di piantagioni di the. Tutto è pulito, non si vede una carta per terra. Passando in macchina mi ripeto che dietro questa scintillante facciata c’è la dittatura di Kagame. Una dittatura vera. “Sarà, ma se dovessi scegliere tra rinascere nell’anarchia del Congo Orientale o nel Rwanda fascista, sceglierei il Rwanda, senza ombra di dubbio”, dico tra me e me dopo aver intravisto l’ennesima aiuola fiorita.

Esco a cena in compagnia di colleghi di un’altra organizzazione umanitaria. Come si fa spesso in simili circostanze, cerco di informarmi un po’ sul paese che sto attraversando. Com’è questa dittatura? E com’è l’opposizione? Sì, ho sentito dire delle granate, anche quindici giorni fa, qui a Kigali. Ma che ne dice la gente? Che succede ai dissidenti? Ah, dici che dopo il genocidio nessuno ha il coraggio di dire nulla? Che basta che il governo garantisca sicurezza, e sono tutti contenti? Certo, si capisce… Però una qualche opposizione ci sarà, le dittature esistono ovunque, e c’è sempre qualcuno che le sfida… E quando sono queste benedette elezioni?

Percepivo un po’ di tensione, in reazione a queste domande. La percepivo ma non mi importava, perché la curiosità era troppa per smettere di chiedere. Dopo qualche minuto però mi è stata lanciata un’occhiataccia così eloquente che ho dovuto zittirmi. Abbiamo cambiato argomento. Più tardi, in gruppo più ristretto, mi sono vista puntare addosso un dito di ammonimento. Non le puoi fare, domande del genere. Non in pubblico. Qui il governo controlla tutto, tutto. Sanno anche chi sei tu, sanno quando resti, sanno cosa fai. Non si parla di politica, in un regime dittatoriale. Credi che si scherzi, quando si dice che non esiste libertà di parola?

venerdì 23 aprile 2010

Un po’ di storia V: La Guerra Mondiale Africana (1998-2003)

La Guerra Mondiale Africana è stata terribile. L’organizzazione per cui lavoro ha condotto uno studio di enormi proporzioni, con lo scopo di stabilire quante siano state le vittime di questo conflitto sanguinario che ha dilaniato l’Africa centrale, nel silenzio di una stampa e di una diplomazia poco interessate. Il risultato dello studio è stato scioccante. 5,4 milioni di morti, dovuti al conflitto o a cause dirette del conflitto (carestie ed epidemie). Insomma, la seconda guerra più mortifera di tutti i tempi dopo la Seconda Guerra Mondiale. Eppure è già tanto se la gente in Europa sa dove si trovi, il Congo.

Il conflitto è durato dal 1998 al 2003, quando è stato finalmente firmato un accordo di pace a Sun City, la Las Vegas del Sudafrica. Durante la guerra, il paese era completamente diviso in due. La parte Ovest, controllata da Kabila a Kinshasa con il supporto di Angola, Namibia e Zimbabwe. E la parte Est, controllata da vari gruppi armati come l’RDC, che erano supportati dai regimi Tutsi di Rwanda e Uganda. Le due metà del Congo cadevano sotto amministrazioni differenti, usavano moneta differente, e avevano soppresso tutte le forme di comunicazione. Per viaggiare da Kinshasa a Goma bisognava passare dal Kenya.

A complicare le cose, nel 2001 il presidente Laurent Kabila è stato ammazzato. Al suo posto, in pura tradizione Africana, è salito il figlio Joseph. Poco più che un ragazzo, era stato cresciuto in Tanzania e al momento dell'investitura non sapeva nemmeno parlare francese. Parlava inglese e swahili, la lingua dell’Est del Congo, ma nemmeno una parola di lingala, la lingua parlata nella capitale. La comunità internazionale però lo vedeva di buon occhio. Era un homo novus, uno che non era ancora stato toccato dalla guerra e dalla corruzione. Poco importa che non sapesse nulla di politica, ma proprio nulla. Qualche maligno dice che in Tanzania fosse un semplice taxista …

giovedì 22 aprile 2010

Second thought

Mi devo ricredere. Mi ricredo in continuazione, di questi tempi. Vedo le cose, traggo una conclusione, poi parlo con delle persone piu’ esperte di me, che mi fanno capire che nel mio ragionamento non ho tenuto in considerazione un sacco di aspetti importanti. E mi quindi ricredo.

Oggi mi voglio ricredere su quello che ho scritto tempo fa, riguardo alla percepta ingiustizia sul divario salariale tra gli espatriati e i lavoratori locali. In realta’, ha senso. Non perche’ il nostro lavoro sia di qualita’ o valore proporzionalmente differente, ma perche’ se offrissimo ai locali stipendi troppo alti rispetto all’economia del posto, distruggeremmo completamente il mercato locale. Gia’ siamo stati sufficientemente indelicati rispetto agli equilibri economici del luogo, distribuendo soldi e beni di consumo a destra e a manca, senza chiderci cosa ne sarebbe stato dei piccoli imprenditori locali. Gia’ paghiamo molto i nostri dipendenti congolesi, tanto che appena uno si mette a lavorare in una ONG tutta la famiglia e gli amici lo braccano per chiedergli aiuto e supporto. Cosa succederebbe se dessimo ancora di piu’ ? Cosa succedera’ quando ce ne andremo, lasciandoci alle spalle lo scheletro di un’economia ormai completamente parrassitaria ?

Dovremmo fare piu’ attenzione anche quando lanciamo programmi « pay for work », ossia I programmi che offrono impiego per aumentare il potere di acquisto dei beneficiari. Come mi spiegava la mia saggia amica F, bisogna assolutamente evitare di pagare troppo i propri lavoratori. Se sul mercato una giornata di lavoro agricolo viene pagata 4 dollari, noi ONG non dobbiamo offrirne 5. L’idea che pagando di piu’ aiutiamo di piu’, o che ci sembra una miseria pagare 4 dollari un’intera giornata di lavoro nei campi, e’ superficiale e sviante. Perche’ quando ne offriamo 5, immediatamente la gente che ha gia’ un lavoro lo lascia per il nostro. Che e’ temporaneo. Perche’ cosi’ facendo fomentiamo meccanismi di lotta all’interno delle comunita’ locali, tra chi si deve aggiudicare il nostro lavoro ben pagato. Perche’ alla fine chi ne beneficiera’ saranno i piu’ connessi e i piu’ potenti, non i piu’ vulnerabili. Invece dovremmo offirne 3,5, per attrarre i disoccupati, o coloro che non sono nella condizione di scegliere. Coloro che hanno piu’ bisogno.

La superficialita’ si paga cara, in questo mestiere. Anzi, la pagano cara gli altri.

martedì 20 aprile 2010

Tre dettagli

Uno. Ieri stavo andando a fare la spesa e ho visto per strada quattro carri armati farciti di soldati armati. Tutti bianchi, quelli della MONUC. Niente di allarmante, c'e' solo qualche pezzo grosso del Canada o della California in visita, quindi meglio mettere in pista l'artiglieria. Mi ha fatto un po' impressione, pero'.

Due. Ora sono in ufficio e ho appena visto passare il solito topo. Anche qui, nulla di tenebroso. E' un topolino grazioso. Ma comunque. A volte la mattina si trovano i suoi escrementi sul tavolo.

Tre. Normalmente il pomeriggio non c'e' l'acqua in ufficio, quindi la mattina bisogna riempire la vasca da bagno e poi per il resto della giornata si tira l'acqua prendendola col secchio. Non e' un problema. Da' solo un po' fastidio lavarsi le mani con l'acqua stagnante.

lunedì 19 aprile 2010

Scritta altrove

Sono giorni e giorni che ci chiediamo quali siano i motivi profondi della vicenda di Rutshuru. A ben pensarci, perché qualcuno dovrebbe avere interesse a cacciarci? Noi siamo umanitari, siamo neutrali. Perché siamo visti come nemici?

In realtà, l’aggressività e le minacce contro gli umanitari sono moneta corrente, qui in Congo come altrove. Siamo stranieri, la gente non ci identifica. Pensano che agiamo per i nostri interessi. Gente ignorante che vive di assunzioni sbagliate e viene facilmente mobilitata. E quelli che hanno un po’ di potere approfittano del fatto che siamo così individuabili e così indifesi per canalizzare un po’ di gente contro di noi, per creare spirito di gruppo. Per far sfogare la violenza. Per acquisire capitale politico.

Ma certo che nella particolarità del caso, ci si chiede come si possa essere arrivati a questi estremi. Siamo passati dalle dicerie contro di noi, alle lettere, agli sms con minacce di morte, agli attacchi fisici contro le nostre strutture e il nostro personale. Dopo un po’, l’idea de gruppetto di troublemakers che agita la gioventù non tiene più. Questo non è un caso come gli altri, non è routine. Soprattutto quando tutti i nostri accordi con gli ufficiali si sono rivelati inutili, quando tutte le nostre reazioni sono cadute nel vuoto. Quando ci si è accorti che non vogliono semplicemente spillarci qualche spicciolo.

No, tutto questo si inserisce in un disegno politico ben più ampio che tocca tutta questa regione del Nord Kivu. Non ci voleva credere nessuno, ma pare che sia così. Ci siamo inseriti nella lotta tutsi-hutu, congolesi-rwandesi, cattolici-protestanti. Ci sono così tante dinamiche politiche che si agitano qui nell’anarchia del Nord Kivu, e noi abbiamo pestato i piedi a qualcuno. Lavorando a così stretto contatto con le autorità mediche e locali, pagando i sussidi agli impiegati statali, inserendoci in modo così intimo nella gestione del territorio, era quasi inevitabile. Questa è una regione caratterizzata da faide violente, e noi ci siamo trovati nostro malgrado parte in causa.

Abbiamo passato ore ed ore a fare analisi della situazione, strettamente a porte chiuse. Noi internazionali, ma anche i membri più rilevanti dello staff nazionale, che conoscono il contesto infinitamente meglio di noi. Un opera di intelligence, praticamente, per investigare chi siano questi “giovani”. Una branca di un certo gruppo armato affiliato a un etnia. Così come questo e quel politico che ci ha promesso appoggio in questo e quel momento. Per cercare di capire quale zona è controllata da chi, quale gruppo fa parte di cosa.

Il quadro globale è ancora confuso. Vorrei poter specificare i dettagli, è appassionante. Ma sono informazioni troppo sensibili, e confidenziali. Mi dispiace. Sarebbe bello usare questo spazio per aprire uno scorcio su questa complessità. Ma questa è una storia che va scritta altrove.

domenica 18 aprile 2010

Apologia della sfrenatezza

Anche ieri sera sono finita a una festa. Era una festa un po’ segreta, non c’era tutto l’ambaradan della comunità umanitaria che si vede di solito. Solo le persone che stanno qui da più tempo, che sono meglio connesse. Per il resto erano locali ricchi, alcuni bianchi, altri mulatti. Businessmen. Anche la casa non era la solita residenza da organizzazione di espatriati. Era una villa lussuosa, con giardino, un'enorme piscina riscaldata. Un dj permanente, superalcolici, video musicali proiettati sul muro. Ci siamo divertiti un sacco. Abbiamo riso, abbiamo ballato. Verso le due di notte mi sono trovata in acqua, tutta vestita.

E’ sempre un po’ straniante, in verità. Trovarsi nella Repubblica Democratica del Congo, a vivere situazioni da Costa Smeralda. Stesso lusso, stessa sfrenatezza. Sapendo che se si guida qualche chilometro fuori città si arriva a un campo di deplacés. Sapendo che realisticamente la guerra potrebbe riscoppiare da un momento all’altro. Sapendo che c’è chi vive nell’indigenza, nell’ignoranza, nella paura, proprio dietro la porta di casa. E’ scandaloso, in un certo senso.

Ma solo in un certo senso. Perché se ci si ferma a pensare per due minuti, si capisce che ci si scandalizza per ipocrisia, per luogo comune, per moralismo. E’ uno scandalo benpensante. Perché dovrei sentirmi in colpa, a fare festa in Congo? Non la faccio anche a Milano? Anche a Milano esistono cose talmente brutte da doverci paralizzare tutti. Ci sono i senzatetto sui marciapiedi, che muoiono di freddo e nessuno ne parla. Ci sono le ragazze della tratta della Nigeria e dell’Europa dell’Est, a pochi metri dai nostri citofoni. Gli immigrati clandestini, che vivono in dieci in casa in viale Padova e lavorano come schiavi nelle cucine dei ristoranti dove ordiniamo le nostre pizze. E dove sta la differenza, allora?

E perché dovrei scandalizzarmi della sfrenatezza? Non è forse un diritto di tutti, cercare di stare bene? Di divertirsi? Venire a lavorare in Africa per qualcosa in cui si crede non significa votarsi al sacrificio fine a sé stesso. Non siamo asceti, non siamo martiri. Che si smetta di considerarci tali. Non ditemi più che sono generosa, non è vero. Siamo tutti qui perché a casa saremmo degli infelici. Perché uno stile di vita nella norma ci schiaccerebbe. Siamo ragazzi normali, vogliamo quello che vogliono tutti. Stare bene.

E infine, perché dovrei trovare strano l’eccesso di queste feste? Non è forse naturale eccedere, in situazioni così estreme? E’ vero, c’è la guerra alle porte. E’ vero, c’è l’estrema sofferenza, che ci guarda in faccia ogni giorno. E noi siamo qui perché vogliamo guardarla negli occhi, questa sofferenza, senza fare finta che non esista. C’è il pericolo, la violenza, la morte. E non è normale allora in queste situazioni, vivere ogni secondo, ogni giorno, in tutta l’abissalità del suo presente? In tutta la sua estrema, tragica, delirante fugacità? Non lo sanno tutti, che le feste migliori del mondo si trovano in posti come Goma e Tel Aviv?

sabato 17 aprile 2010

Lucky girl

Sono fortunata. Oh, se sono fortunata. Non solo perché ho un lavoro che adoro, sono in un posto interessantissimo, i miei colleghi sono meravigliosi, la gente che incontro in città è mediamente più emozionante e stimolante del novantanove percento delle persone che incontrerei a Milano. Non solo perché vivo al caldo, su una bella casa sul lago e passo tutte le pause pranzo su una veranda sull’acqua dalla bellezza mozzafiato. Ma anche perché – concedetemela, un po’ di leggerezza - anche stamattina il giardiniere ha raccolto fiori freschi che ha lasciato in un vaso sul tavolo, e abbiamo un cuoco che cucina per noi, e guardie per proteggerci, e autisti che ci portano ovunque vogliamo, e qualcuno che lava e che stira al nostro posto. Non mi sembra vero, di essere trattata come una principessa.

Dopo tutti gli anni vissuti da studentessa giramondo, dopo la mia vita Bohème di Bruxelles, sempre al verde. A lavare le mie cose nelle lavanderie a gettone, e portare sacchi della spesa pesantissimi da sola, ad andare ovunque a piedi, di giorno, di notte. Ad arredare la casa con divani e tavoli regalati dagli amici, poi pitturati di azzurro. A comprare i mobili al Salvation Army, dove abbiamo pure trovato una pentola blu, per un euro soltanto, la nostra pentola preferita. Blu come tutto il resto della casa: facevamo finta di vivere sul Mediterraneo, anche se fuori pioveva sempre. A comprare dopo mesi una lavatrice a 20 euro su e-bay con lo sportello che non si chiudeva e bisognava fare un castello di sedie per premere contro l’oblò ogni volta che si doveva lavare qualcosa.

Adoravo Bruxelles, la vita scanzonata da daydreamers che facevamo. Con la consapevolezza che avevo una famiglia alle spalle che avrebbe potuto intervenire in qualunque momento, che mi aiutava sempre. Ma era bello tuffarsi nella vita ad occhi chiusi, così, senza troppe reti. E ora sono qui, tre anni più grande, tre anni più vecchia. Che scrivo col mio computer guardando un lago Africano, sotto un albero di avocado. Mentre il mondo intero si prende cura di me.

mercoledì 14 aprile 2010

Dream Team

La vicenda di Rutshuru mi ha insegnato moltissimo. In moltissimi sensi. Dopo una settimana dalla notizia degli attacchi, mi sento immensamente cresciuta. Io e una manciata di altre persone ci siamo trovati di fronte alla crisi, e l’abbiamo affrontata. E il fatto che il capo era in vacanza e molti senior staff erano fuori Goma ha aumentato esponenzialmente la responsabilità che mi sono trovata tra le mani. La responsabilità di dover agire in fretta.

Per qualche giorno, eravamo solo in tre. E in tre abbiamo pensato, agito, lavorato. Lavorato, scritto, pianificato. Quando non lavoravamo, parlavamo di Rutshuru. Quando non parlavamo, è perché stavamo lavorando. I pranzi e le cene servivano per discutere. Il sabato è servito per un meeting straordinario. C’erano così tante cose a cui pensare. Dopo l’attacco alla clinica la nostra coordinatrice sul campo è stata fermata, mentre andava in macchina, da un gruppo di giovani. Che le ha detto che non l’avrebbero ammazzata perché quel giorno stavano già seppellendo altri cadaveri. Parole testuali.

Dovevamo fermare le attività, immediatamente. Bloccare il ritorno sul campo pianificato per lunedì. Ma allo stesso tempo ricominciare a pagare i sussidi negli ospedali, se no tutto il nostro programma sarebbe affondato. I nostri capi da lontano non capivano questa realtà, pensavano che avremmo dovuto continuare a rifiutarci di pagare per fare in modo che la gente si accorgesse della nostra mancanza. E invece no, questa era una strategia sbagliata, sensata ma sbagliata. Perché si basava su un assunto errato. Sull’assunto che i beneficiari potessero alzare la voce per chiedere il nostro ritorno, mentre invece non era possibile, perché i nostri nemici sono troppo forti. Sono personalità politiche-militari molto più in alto di quanto si pensasse all’inizio.

Dovevamo fermare le attività sul campo, e pensare a come spiegarlo ai donatori. Ai donatori che ancora non hanno firmato i contratti, e che di fronte a una sospensione totale dei lavori potrebbero rifiutarci il loro sostegno, facendoci perdere un mucchio di soldi. E’ dall’inizio di marzo che sosteniamo la baracca con fondi nostri, in attesa delle firme. Tutti i donatori sono oberati dai progetti per Haiti, sono tutti in ritardo. E poi un altro problema. Che fare di tutto il nostro personale? Delle trentacinque persone che avevamo evacuato a Goma e che stavamo mantenendo in albergo? Per quanto tempo ci potevamo permettere di tenere in piedi questa situazione?

E in più nel frattempo – che fortuna! – cominciavano a girare voci sullo scoppio un’epidemia di colera. E noi che siamo l’operatore medico più importante della zona avevamo le mani legate perché non ci potevamo muovere sul campo. Allora cominciamo a pianificare un piano di emergenza, di risposta al colera senza muoverci da Goma. Chiederemo a Medici Senza Frontiere, di trasportare i medicinali. Toglieremo gli adesivi alla nostra ambulanza, così non la riconosceranno. Dovremo chiederlo ai donatori, se sono d’accordo che si tolgano gli adesivi. Per loro la visibilità è la cose più importante.

Ma per tutto questo servono le autorizzazioni dei capi che sono lontano, e allora via! Comincia a scrivere. Ero io, quella che scriveva tutto. Dei tre, ero quella con meno esperienza di campo, e di gran lunga. Ero quella meno capace di organizzare una reazione tempestiva. Però ero quella a cui piaceva scrivere. Ho scritto al management, ai donatori, alla comunità umanitaria. Pagine e pagine di spiegazioni per convincere tutti a supportare le nostre idee. Per far capire quello che ci stava succedendo. Per far arrivare il messaggio che il problema era grave, e bisognava agire in fretta. In fretta.

E devo dire che ha funzionato, il dream team. Siamo stati davvero bravi. Non mi era mai successo di lavorare in squadra in modo così bello, così assoluto, così concreto. Con un impegno di tutti al cento per cento, in funzioni diverse, senza nemmeno doverci organizzare. Ognuno di noi era così proactive che offriva subito ciò che poteva fare al meglio, senza risparmiarsi, senza nemmeno chiedere. Offriva e basta, e il lavoro andava avanti. Come ho detto a un amico, se non fosse stato triste, sarebbe stato bello. Sento gratitudine, quando ci ripenso.

Ora le cose sono più tranquille, ci hanno mandato un capo da Bukavu, un security advisor da Kinshasa. Hanno accettato di farci sospendere i programmi, di farci pagare gli incentivi, di far partire una risposta d’urgenza contro il colera. Hanno accettato tutto quello che abbiamo chiesto. Abbiamo informato tutti, dissipato i pettegolezzi, sistemato il personale, assicurato i finanziamenti. Ora bisogna pensare al lungo termine, alla strategia. Siamo fuori dalla crisi. E in casa siamo rimasti senza caffè.

Diamanti


Qualche tempo fa sono andata a una festa. Una classica festa di expats, in una ONG irlandese. Prato, musica, roba da bere. Musica in random playlist, io che ballavo. Si avvicina uno, mi parla. E’ italiano. Mezzo italiano, in realtà, ma parla la mia lingua. Sempre bello trovare compatrioti, chiacchieriamo un po’, sopra quel rumore. Di-dove-sei-chi-conosci-qui-da-quanto-sei-arrivato. Le solite cose, mi sta pure simpatico. Ha l’aria gentile. Poi però mi dice quello. Quello che fa. E mi muore subito il sorriso.

Commercia. In. Diamanti.

Pure orgoglioso, il bastardo.

Commerciare in diamanti in Congo significa finanziare la guerriglia. Significa finanziare lo sfruttamento di migliaia di persone che vengono messe a scavare, a estrarre pietre preziose. Finanziare i gruppi armati che controllano le miniere, che tassano ogni pietra che ne esce. Finanziare i loro padroni, che li rivendono sul mercato internazionale a chi finge di non sapere. Tanto i diamanti poi vengono mandati in Uganda, e esportati da lì. Per miracolo in Uganda c’è stata una crescita esponenziale di esportazione di diamanti, manco si potessero coltivare.

Io provo a non dire niente, a non commentare. Tanto a che serve? Ma non ci riesco. “Ah allora finanzi la guerriglia”, gli dico, secca. Lui sorride, impacciato. “Perché lo sai che i soldi li usano per comprarsi armi, vero?”. Lui ride stavolta, non se lo aspetta. “Ma no, io compro da quelli onesti…”, inventa. E allora mi pento, sono stata fuori luogo. Stavolta sono io che sorrido, cerco di metterla sul ridere. “Guarda non voglio sapere”. Faccio lo scimmietta che si copre le orecchie. “Faccio finta di non aver sentito, continuiamo la festa”. Provo a fargli un sorriso sincero, al mio nuovo amico italiano. Ma fallisco. Non voglio più ballare con questo idiota, non voglio più doverlo guardare in faccia.

Per favore, prima di comprare diamanti, informatevi bene.
http://conflictminerals.org/us-canadian-companies-involved-in-congo/

lunedì 12 aprile 2010

Videoclip

Domenica mi sono trovata catapultata in un video musicale. Con quella luce bianca che sembra fatta di riflettori, e il lago dietro così azzurro, così artificiale. In una mega villa sul lago, con giardino all’inglese, mobili di design, lusso scintillante. Schermi piatti, vetrate con vista, bar al centro del soggiorno con gli sgabelli attorno. La musica del Buddha Bar, di sottofondo, altissima, che faceva pulsare tutto. Come in un video ambientato in California.

Gente che va, gente che viene, ognuno che porta da bere. Ragazze nere vestite in bianco, piene di gioielli d’oro. I ragazzi con l’aria da gangster, che fumano piano, che hanno i muscoli. Che si muovono a ritmo con tutto il resto.

La piscina, le macchine, il cuoco che cuoce il pesce. Lo champagne che scorre a fiumi, apriamo un’altra bottiglia. Facciamo un tuffo nel lago. Facciamo un giro sulla moto d’acqua, voglio vedere tutta la costa. Voglio possedere tutta Goma, oggi, fino al confine col Rwanda. Voglio schizzare sull’acqua e vedere le ville sul lago, salutare la gente con la mano.

E poi tornare nella casa assolata, con la musica, con la dolcezza sfrenata della vita dei ricchi. Che chissà come sono diventati così ricchi. Che ridono e dicono che Goma è così, è la capitale della bella vita.

Tornare coi jeans tutti bagnati, strizzati intorno alle gambe. Sentire il corpo che si muove in quegli spazi così lucidi, così geometrici. Nel groove patinato e sensuale. Nel sole che inonda tutto. Nell’ondeggiare lascivo della domenca. Nel ritmo cosmico del pomeriggio.

Giovedì, venerdì, sabato

Sono gonfia di pensieri, ronzanti, vibranti, esigenti la mia attenzione. Frammenti degli ultimi tre giorni bombardano incessantemente lo schermo della mia mente. Decine di immagini e di parole in disordine che hanno bisogno di essere raccolte, soppesate, ripercorse. Capite, interpretate, custodite. Pigne di emozioni usate da lavare e stirare, perché non si sciupino. Cocci di vita da allineare sugli scaffali della memoria - fragili e preziosi come petali seccati, ali di farfalla, pagliuzze d’oro. Tra i tre giorni più intensi della mia vita, probabilmente.

domenica 11 aprile 2010

sabato 10 aprile 2010

racconto/rotto di una notte intera/spezzata

"andiamo a prendere una birra?"
birra/birra/birra
in europa/in africa
parole di yoga/viaggi/corruzione
sms sottopelle
in macchina/in casa
parole di politica congolese
francese/inglese/italiano
ridiamo
birra/whisky/vino/rum
magliette gialle/pantaloni blu
gente va/viene
parole veloci
la guerra dei bicchieri/la guerra in rutshuru
parole che rallentano
dorme sul pavimento/sul divano
parole dette piano per non disturbare
il lato B della notte/senza più parole
le cinque/l'ultima partenza
parole nuove/chiare/limpide come il mattino
un abbraccio/giorno fresco
parole d'amica a colazione

Powerless

Mercoledì scorso, per la prima volta nella mia vita, mi sono messa a piangere in ufficio. Al telefono con una collega.

Era l’ultima telefonata della giornata, ero contenta. Ero raggiante, per la precisione. Avevo appena concluso un meeting importante, sola con un donatore, ero andata e avevo portato a casa belle notizie. Era stato eccitante, andare dal donatore da sola, il mio capo da Kinshasa mi aveva chiesto se me la sentivo, io avevo detto di sì, mi ero preparata tutta la mattina. Dovevo parlargli della sospensione dei programmi a Rutshuru a causa delle minacce ricevute a partire dal 12 marzo. Dovevo raccontargli per filo e per segno quello che avevamo fatto, gli incontri con le autorità locali, le pseudo-evacuazioni, le riunioni. Dovevo dirgli che eravamo pronti a partire, di nuovo, lunedì. Che la capo squadra era appena tornata a Rutshuru per fare un assessment e poi tutti gli altri sarebbero tornati a lavorare, a far funzionare i diciassette centri di salute senza i quali la gente muore di parto, senza i quali i bambini non vengono vaccinati. E il donatore era stato comprensivo, era stato gentile, avevamo simpatizzato, porca miseria. Ha detto che sta con noi, che dobbiamo scusarli per la lentezza, la firma sta arrivando. Ero contenta quando sono uscita. Raggiante, per la precisione.

E poi arriva la doccia fredda. No Vivi, no. Non sono serviti a nulla, gli incontri. A nulla, le lettere di autorizzazione delle autorità locali. Non valgono niente le promesse di protezione che ci dà l’esercito. Uno dei nostri centri è stato attaccato, due volte, ieri sera e stamattina. Da questi bastardi, i sedicenti Giovani di Rutshuru. Sono entrati gridando, gridando che ce ne dobbiamo andare dal territorio. Distruggendo tutto quello che recava il nostro logo. Facendo paura ai pazienti, agli infermieri - che erano lì a fare il loro lavoro nonostante noi abbiamo sospeso tutti i pagamenti e non hanno ancora ricevuto lo stipendio di Marzo. Facendo paura, ripetendo quelle parole. Ci bruceranno i veicoli, faranno colare il sangue. Vivi, lunedì non ricomincia nulla. Nulla.

Ero in piedi sul balcone, col telefono in mano, mentre fuori era tutto buio. Ero l’ultima a lasciare l’ufficio, quella sera. Piangevo di rabbia, e di impotenza.

martedì 6 aprile 2010

Un po' di storia IV: 1997-1998

La fine del genocidio in Rwanda ha anche fatto cadere la dittatura di Mobutu in Congo. Due piccioni con una fava. Quando gli Hutu Rwandesi sono stati tolti di mezzo e i Tutsi di Kagame si sono instaurati al governo, la prima cosa che hanno pensato di fare è stata di fargliela pagare, a Mr. Mobutu. Per aver accolto i genocidaire in fuga nel suo paese senza battere ciglio - né consegnarli alla giustizia. E quindi i Rwandesi hanno dato una mano al Congolese Kabila, che voleva guidare un’insurrezione. Un Tusti Congolese. L’insurrezione è andata piuttosto bene. Inizialmente toccava solo il Congo Orientale, poi si è estesa fino ad arrivare a Kinshasa. E così, grazie ai Rwandesi, Mobutu è stato cacciato ed al suo posto è salito al potere Kabila, nel 1996.

All’inizio ovviamente Kabila era tutto culo e camicia con i Tutsi Rwandesi (ma anche Burundesi e Ugandesi) che l’avevano supportato. Dopo qualche tempo, però, vedendo che l’amicizia con i Tutsi significava averceli sempre in casa, si è chiesto se ne valesse davvero la pena. Tutsi di tutti i tipi se ne stavano in pianta stabile nel Congo dell’Est, armati fino ai denti, occupati a tempo pieno a rubare le risorse e combattere contro i gruppi Hutu nascosti nei Kivu. I Congolesi non erano esattamente contenti della situazione. I civili ne subivano di tutti i colori e la gente di Kinshasa diceva che Kabila era una pedina del Rwanda. Lui ovviamente ha avuto paura che lo facessero fuori. Si sa com’è, in Africa, quando la gente non ama chi è al Governo. E quindi ha deciso di voltare le spalle agli ex alleati, chiedendo loro cortesemente di levare le tende e togliere i loro eserciti dal suo territorio. E questo ovviamente ha scatenato una guerra. La Guerra Mondiale Africana.

domenica 4 aprile 2010

Pasqua


Non c'è nulla di meglio al mondo
che un tuffo nel lago la mattina di Pasqua
e un tramonto rosa la stessa sera.

sabato 3 aprile 2010

Un po' di storia III: 1994-1996

Il Congo è un paese immenso, peno di giungla, di fiumi, di tribù sconosciute. Secondo la Rough Guide, l’esplorazione di questo paese è forse l’unica vera avventura rimasta da compiere al mondo.

Il Congo è misterioso anche per i Congolesi. Il Governo non ha il controllo sul territorio e non gestisce praticamente nessun servizio centralizzato. In effetti il Congo è popolato soprattutto lungo il suo perimetro, il che fa sì che le varie popolazioni del paese siano più coinvolte nella storia dei paesi confinanti che legate alla lontanissima capitale Kinshasa. Ad esempio il Kivu del Nord e del Sud sono un tutt’uno con Rwanda e Burundi. Ed è per questo che dal 1994, quando in Rwanda è avvenuto il terribile genocidio degli Hutu contro i Tutsi, qui in Congo Orientale è successo un gran casino.

Gli Hutu hanno massacato la loro milionata di Tutsi, l’ONU è scappato, il mondo se n’è fregato, e poi tutti sono tornati in pompa magna per raccogliere i cocci. Quando i Tutsi sono stati solennemente messi al potere Rwanda dalle potenze europee, due milioni di rwandesi (metà della popolazione) si trovavano ormai nei campi profughi in Congo Orientale. Col finire della guerra non sono tutti ritronati a casa. Nonostante le promesse sull’uguaglianza etnica, gli Hutu in Rwanda non si sentivano più esattamente a loro agio. E data la determinazione del governo a fare giustizia, coloro che sono stati direttamente coinvolti nel genocidio hanno pensato bene di non farsi più vedere. In generale, molti Hutu hanno pensato che starsene nascosti in Congo era meno pericoloso che rientrare in patria, soprattutto se c’era una comunità internazionale che dava da mangiare gratis nei campi di rifugiati.

Il governo rwandese non era troppo contento del fatto che Mobutu stesse accogliendo tutti questi Hutu senza battere ciglio. E così il Rwanda ha pensato bene di sponsorizzare una bella rivolta guidata da Laurent Kabila, un ribelle congolese dell’Est. Grazie al supporto del Rwanda, Kabila in quattro e quattr’otto ha conquistato tutto, arrivando a prendere il potere a Kinshasa nel 1996.

E così è finita la dittatura di Mobutu, dopo quarant’anni di regime sanguinario. Con una rivolta interna sponsorizzata dai Tutsi Rwandesi, che approfittando della confusione della guerriglia hanno ordinato di massacrare gli Hutu che si trovavano in Congo. Questo lato della vicenda lo conoscono in pochi, ma quelli che lo conoscono lo chiamano il secondo genocidio.

Questa guerra nascosta non ha però risolto il problema. Ancora adesso, nel Kivu del Nord e del Sud sono nascosti circa 5,000 genocidaires o figli di genocidaires, che vivono ancora in strutture militarizzate, educano i loro discendenti all’odio per i Tutsi-Scarafaggi e passano il tempo a pianificare nuovi attacchi armati contro il Rwanda. Nel tempo hanno cambiato diversi nomi e si sono disaggregati in vari gruppi. Il loro nome originale è Interahamwe. Ora sono conosciuti soprattutto come FDLR. Un bel nome. Sta per Fronte Democratico per la Liberazione del Rwanda.

venerdì 2 aprile 2010

What's in that small box?

Donatori

Gli organismi che finanziano i programmi delle organizzazioni come la mia - i cosiddetti "donatori" - sono tanti e diversi fra loro come il giorno e la notte. Si passa dai privati cittadini che vogliono contribuire ad una causa, come Angelina Jolie o un magnate del petrolio, alle fondazioni come quella di Bill Gates, ai governi di piccoli paesi come la Svezia e l'Olanda, fino ad arrivare ai mastodontici organismi ONU, l'Unione Europea e il Governo Americano.

Il donatore è molto di più che un semplice dispensatore di denaro. Infatti, è il donatore che decide in che posti e in che modi impiegare i suoi soldi. A quali organizzazioni darli. Cosa pretendere a livello di risultati. Insomma, è il donatore che fa la vera politica umanitaria e dello sviluppo, ed è per questo che è così importante che sappia quello che fa.

Ultimamente ho avuto tre esperienze molto diverse con i donatori, da cui ho tratto parecchi insegnamenti. La prima è stata tremenda. Mi trovavo sola contro un panel di quattro burocrati che mi tempestavano di domande su nostri vecchi progetti di cui io sapevo poco o nulla. Con fare inquisitorio ravanavano ogni dettaglio dei report, come a cercare i nostri errori. Ne sono uscita stravolta, dopo quattro ore di difesa strenua del nostro lavoro. "Ecco un donatore odioso", ho pensato. "Che ci fa perdere un sacco di tempo in spiegazioni superflue e ripetitive, solo per dare una sembianza di controllo sul modo in cui i finanziamenti vengono spesi."

Le seconda è stata insolita. Ho partecipato a un workshop di due giorni, organizzato da un donatore per tutte le organizzazioni con cui lavora abitualmente. Ci veniva chiesto di articolare i nostri bisogni, ossia di chiedere come migliorare la nostra collaborazione. L'iniziativa - lodevole - viene da un paese del Nord d'Europa, con l'abitudine alla democrazia diretta. Ma lascia pur sempre la domanda aperta. "Questo donatore sa veramente ciò che vuole? Sarà capace di dirigere e aiutare noi altre organizzazioni, se appare così sprovveduto riguardo al suo ruolo nel paese?"

Infine, la terza è stata strepitosa. Si trattava di un grande donatore che, contrariamente alla tendenza generale di starsene in poltrona a Washington o Londra, si è aperto un ufficio a Goma. Che differenza rispetto ai suoi colleghi! Di fronte alla nostra proposta, ha fatto domande pertinenti, ha stimolato costruttivamente, ha suggerito di entrare in contatto con altre ONG che lavorano nella stessa zona. Ha fatto domande provocatorie, per verificare se avevamo riflettuto su certi aspetti problematici dell'implementazione del progetto. "Questo è un donatore che sa di cosa parla!", ho pensato. "Che fa dipendere il suo finanziamento da considerazioni di qualità. I cui soldi saranno spesi bene. E che non vuole essere trattato come un cliente troppo esigente, nè come un vecchio bacucco pieno di soldi."