domenica 18 aprile 2010

Apologia della sfrenatezza

Anche ieri sera sono finita a una festa. Era una festa un po’ segreta, non c’era tutto l’ambaradan della comunità umanitaria che si vede di solito. Solo le persone che stanno qui da più tempo, che sono meglio connesse. Per il resto erano locali ricchi, alcuni bianchi, altri mulatti. Businessmen. Anche la casa non era la solita residenza da organizzazione di espatriati. Era una villa lussuosa, con giardino, un'enorme piscina riscaldata. Un dj permanente, superalcolici, video musicali proiettati sul muro. Ci siamo divertiti un sacco. Abbiamo riso, abbiamo ballato. Verso le due di notte mi sono trovata in acqua, tutta vestita.

E’ sempre un po’ straniante, in verità. Trovarsi nella Repubblica Democratica del Congo, a vivere situazioni da Costa Smeralda. Stesso lusso, stessa sfrenatezza. Sapendo che se si guida qualche chilometro fuori città si arriva a un campo di deplacés. Sapendo che realisticamente la guerra potrebbe riscoppiare da un momento all’altro. Sapendo che c’è chi vive nell’indigenza, nell’ignoranza, nella paura, proprio dietro la porta di casa. E’ scandaloso, in un certo senso.

Ma solo in un certo senso. Perché se ci si ferma a pensare per due minuti, si capisce che ci si scandalizza per ipocrisia, per luogo comune, per moralismo. E’ uno scandalo benpensante. Perché dovrei sentirmi in colpa, a fare festa in Congo? Non la faccio anche a Milano? Anche a Milano esistono cose talmente brutte da doverci paralizzare tutti. Ci sono i senzatetto sui marciapiedi, che muoiono di freddo e nessuno ne parla. Ci sono le ragazze della tratta della Nigeria e dell’Europa dell’Est, a pochi metri dai nostri citofoni. Gli immigrati clandestini, che vivono in dieci in casa in viale Padova e lavorano come schiavi nelle cucine dei ristoranti dove ordiniamo le nostre pizze. E dove sta la differenza, allora?

E perché dovrei scandalizzarmi della sfrenatezza? Non è forse un diritto di tutti, cercare di stare bene? Di divertirsi? Venire a lavorare in Africa per qualcosa in cui si crede non significa votarsi al sacrificio fine a sé stesso. Non siamo asceti, non siamo martiri. Che si smetta di considerarci tali. Non ditemi più che sono generosa, non è vero. Siamo tutti qui perché a casa saremmo degli infelici. Perché uno stile di vita nella norma ci schiaccerebbe. Siamo ragazzi normali, vogliamo quello che vogliono tutti. Stare bene.

E infine, perché dovrei trovare strano l’eccesso di queste feste? Non è forse naturale eccedere, in situazioni così estreme? E’ vero, c’è la guerra alle porte. E’ vero, c’è l’estrema sofferenza, che ci guarda in faccia ogni giorno. E noi siamo qui perché vogliamo guardarla negli occhi, questa sofferenza, senza fare finta che non esista. C’è il pericolo, la violenza, la morte. E non è normale allora in queste situazioni, vivere ogni secondo, ogni giorno, in tutta l’abissalità del suo presente? In tutta la sua estrema, tragica, delirante fugacità? Non lo sanno tutti, che le feste migliori del mondo si trovano in posti come Goma e Tel Aviv?

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