mercoledì 30 giugno 2010

Commiato

Ieri è andato via il terzo. Partito, per sempre, rimbalzato su un altro continente. Un altra persona bellissima, con cui si è creata una comunicazione speciale, con cui - nonostante i limiti di tempo - c'è stato un vero, intenso, cristallino scambio di affetto. E che non so se rivedrò mai più nella mia vita.

Un altro abbraccio, un altro augurio, un'altra promessa di sentici, di scriverci, facebook, email. Sono stati tre, fino ad ora, gli amici che ho visto prendere il volo durante i cinque striminzitissimi mesi passati a Goma. Tre amici, più una ventina di conoscenti.

Questo non è sorprendente se si pensa che il tempo di soggiorno medio qui è di circa dieci mesi. Un po' destabilizzante, certo. Ti fai un amico, e quello se ne va nel giro di cinque settimane, lasciandoti di nuovo con tutto da fare. Poi però arriva sempre qualcun altro, in questo turbinio di volti. Una nuova persona in soggiorno temporaneo che non ha nessuno - e che si aprirà a te. E tu ti ci aprirai, nonostante la certezza di vederla partire - o lei vedrà partire te.

Sono triste, oggi. Ma nonostante tutto, penso. Che meravigliosa lezione di vita! Il fatto che una rapporto sia destinato a svanire non significa che non lo si debba vivere tutto, in modo autentico. Che si debba avere paura di affezionarsi, raccontarsi, scambiarsi affetto e regali e abbracci e momenti assieme. Prima o poi, tutto finisce. Ma in fondo, l'amore è l'unica cosa che resta.

domenica 27 giugno 2010

Regole

Il 30 giugno sarà il cinquantesimo anniversario della repubblica congolese. Dovrebbe essere un'occasione gioiosa, ma in realtà si prevedono scontri. Si dice che la situazione politica è tesa e l'anniversario potrebbe essere l'occasione giusta per fare un po' di casino. Nessuno ci crede veramente. Tutti sanno che non succederà nulla. Ma i security officers devono pure essere pagati per qualcosa, e quindi creano regole strettissime ipotizzando i più catastrofici scenari.

Tutte le organizzazioni hanno creato misure di sicurezza speciali per far fronte a questa settimana, noi addirittura chiudiamo gli uffici. Il nostro management ci regala 2 giorni di ferie e ci incoraggia a prendere gli altri 2 per andarcene fuori dal paese per tutta la settimana. Per chi resta, il 29 e il 30 giugno bisognerà restare confinati in casa, senza mettere il naso fuori. E dobbiamo prepararci una borsa di sicurezza con documenti e vestiti per 2 giorni, in caso fosse necessaria una breve evacuazione. Senza dubbio un'esagerazione, ma le regole sono regole.

Io ho cercato di usare questa possibilità per andare a farmi un giro nei paraggi, ho convinto 3 o 4 amici a prendersi qualche giorno di congedo ed andare tutti in gita a Bujumbura, la capitale del Burundi sul lago Tanganika. Tutto dicono che sia deliziosa. Ma il piano non ha funzionato. Ci sono le elezioni il 28 giugno, in Burundi, e si prevedono scontri. Tutti i viaggi sono sospesi.

Cerco di ripiegare sul solito Rwanda, qui a portata di mano. Magari un giro a Kigali, la capitale, per vedere il famoso museo del genocidio e per andare a caccia dei posti di cui ho letto nei libri. O se non fosse possibile Kigali, magari anche solo Gisenyi, qui a fianco, per nuotare nel lago e passeggiare sulle strade circondate da oleandri. Ma ci sono nuove regole, adesso, e chi non ha il visto permanente (come me) non può più varcare il confine. Ho cercato di spiegare alla frontiera che farò il visto permanente il mese prossimo, ma fino a dopo il 30 giugno non posso mandare il passaporto a Kinshasa per motivi di sicurezza. Niente da fare, non mi hanno fatta passare.

Farò vacanza in terrazza, con i miei libri. Rispettando tutte le regole.

martedì 22 giugno 2010

Oggi sono entrata in un carro armato.

Questo pomeriggio siamo scappati dall'ufficio. Io, B, Hel e Hil.

Hel si è fatta un amico nella MONUC, contingente Uruguayano, che ci ha invitati a vedere la partita Uruguay-Mexico alle quattro nella sua base. Abbiamo tentennato, è orario di lavoro. Ma poi, visto che abbiamo tutti passato il weekend in ufficio, abbiamo deciso di strapparci queste due ore per la nobile causa di tifare Uruguay.

E' la prima volta che entro in un vero e proprio accampamento militare, con soldati e alzabandiera e tende tutte allineate. Abbiamo guardato la partita nella stanza degli ufficiali, tutti in tuta mimetica e stivali con la punta d'acciaio, che mangiavano pastels e facevano un rumorosissimo tifo latino con salti, baci e abbracci ad ogni gol. Dopo la partita abbiamo esplorato la base. E' più graziosa del previsto, con aiuole di fiori davanti alle tende e centinaia di soldati-ragazzini che sembrano boy scouts.

Sul retro c'è un un campo di ex-FDLR smobilizzati, circondato da filo spinato. FDLR è il gruppo armato dei genocidari rwandesi che sono fuggiti in Congo dopo il 1994, e da allora stanno ancora combattendo. Ho stretto la mano ad uno di loro, apparentemente un capo. Un comandante assassino che ha lasciato le armi e che ora vive lì, nel campetto dietro agli uruguayani, perchè se si fa vedere in giro in Congo o in Rwanda lo mettono in prigione e lo ammazzano in tre giorni.

Dall'altro lato della base c'erano i carri armati. Bianchi e con la scritta UN, come al solito. Noi ragazze ci siamo entrate dentro, ci siamo arrampicate sopra, abbiamo fatto le foto. Si stava facendo sera, c'era una bella luce. Poi, come se niente fosse, siamo tornati a casa.

domenica 20 giugno 2010

Disaster junkies

Ero in macchina con B. Stavamo tornando a casa, attraversando tutta Goma. Parlavamo di quanto ci piaceva, questa città orribile. Di come ci eravamo affezionati in fretta a questo caos fragile e tagliente. Parlavamo di dove abbiamo già lavorato, di dove potremmo lavorare. Abbiamo convenuto che sì, esistono tanti bei posti a questo mondo. Tanti posti interessanti. Ma che in fondo noi non siamo più attratti dai posti esotici, nè da quelli pittoreschi. Abbiamo bisogno della drammaticità incandescente della distruzione. Dell'instabilità, del mistero, del gioco pericoloso che si consuma nelle catastrofi. E' una cosa che capita, ai lavoratori umanitari. Come ai soldati, ai reporter di guerra, ai fotogiornalisti. Siamo attratti dal dolore, forse, dallo schiaffo della sua intensità. Siamo dei disaster junkies.

Non so come mi sia potuto succedere. Sembra una perversione, e allo stesso tempo sembra coraggio. Forse ho semplicemente bisogno di profondità, e nulla è profondo come la sofferenza. Lo dice anche la bossanova. Tristeza nao tem fim, felicidade sim.

sabato 19 giugno 2010

Occhi



Riunione

A Kitchanga, ogni giovedì OCHA organizza una riunione di coordinamento per tutte le organizzazioni che lavorano nella zona. Eravamo tutti lì, ammonticchiati nella paillotte di Medici senza Frontiere, a raccontarci qui fait quoi où.

Abbiamo parlato di guerra, come sempre nelle riunioni OCHA. Ma mentre a Goma è l'ONU che informa la comunità umanitaria sulla situazione militare, questa volta sono le organizzazioni a raccontare i movimenti dei gruppi armati. Organizzazioni come la nostra, sempre sul terreno, che raccolgono informazioni mentre lavorano. E poi abbiamo parlato di dati. Malnutrizione, violenza sessuale, malaria, colera, tifo. Una pioggia di informazioni nauseante, da far venire voglia di piangere, o di vomitare.

Certe volte sembra che nulla sia possibile, che sia tutto troppo brutto, troppo feroce. Perchè ci sono 50 casi dichiarati di violenza sessuale alla settimana in una zona così piccola? Perchè nel 2010 la gente muore ancora di tifo? Di malaria? Di malattie che bastano due pillole a guarire? A volte sembra semplicemente troppo per poter fare qualcosa. Sembra un enorme scherzo crudele, un rompicapo senza soluzione.

venerdì 18 giugno 2010

Masisi



Tutto attorno, la campagna di Masisi è di una bellezza mozzafiato. Colline verdi, cielo blu. Laghi incastonati nella terra ondulata. I villaggi sono dispersi in questa campagna sconfinata. Poveri, isolati, praticamente inaccessibili. Gli abitanti sono Congolesi rwandofoni, o rwandesi appena arrivati. E' difficile distinguere i returnés dai déplacés, difficile dire chi va e chi viene, chi occupa e chi è occupato. Sono tutti vittime del conflitto, i loro villaggi vengono presi e saccheggiati e le ragazze violentate da tutti i militari che passano. Sono anche malnutriti, pur vivendo in una terra così fertile. Sono costretti a coltivare le terre vicino a casa perchè i loro campi, su sulle colline, sono inaccessibili a causa dei movimenti dei militari. O sono occupati da altri. E allora loro vivono di sussistenza e delle distribuzioni di cibo mensili del World Food Program. Alcuni vivono ancora nei campi profughi. Aspettando che cambi qualcosa, prima o poi.

Kitchanga



Kitchanga non è che una strada con baracche attorno. Non ha nulla a che vedere con i villaggi che costellano Rutshuru, con la loro comunità, la loro anima. Kitchanga è nera, sporca, instabile. Si capisce che è al centro della guerra, da subito. Tutto è così a pezzi. Nulla è amato, nulla è fatto per restare. Non si vedono le belle casette di fango e paglia tirate su con amore, coi muri dritti e le porte colorate. E' un ammasso gracchiante di case sporche e sconnesse.

Non so come si faccia a vivere qui. L'ho chiesto al ragazzo che lavora a UNHCR, che abita e lavora nelle stesse due stanze. "E' interessante", mi ha risposto laconico, col tono asciutto di chi ha fatto questo lavoro per un sacco di tempo.

mercoledì 16 giugno 2010

Schizzinosa

Eccomi. Sono sul terreno. Questo ho voluto e questo ho ottenuto. Lontano dalle comodità di Goma, nell'inglorosa Kitchanga, al confine tra Rutshuru e Masisi. Una tipica zona calda, dove ci sono combattimenti ogni due per tre e quindi i villaggi sono ancora più poveri e feriti degli altri.

Non ho tempo di spiegare il nostro programma, solo di dire che in momenti come questo non credo proprio di essere fatta per la vita sul field. Sto scrivendo dall ufficetto di un francese gentile di UNHCR che mi sta prestando il suo computer. Fuori pioviggina, e l'unica strada sterrata del paese è un pantano micidiale. Mangeremo in una capannetta prima che faccia buio perchè l'elettricita non esiste e il coprifuoco è prestissimo. E vada. Mangeremo fufu, foglie di manioca bollite, banane lesse e patate cotte. E vada. Non mi piace molto l'idea di mangiare con le mani in un posto lurido come questo ma non ci posso fare nulla.

In albergo non c'è l'elettricità, e questo da un po' fastidio perchè abbiamo solo le candele, che non sono il massimo dela praticità per leggere e lavorare. Poi. In albergo non c'è la doccia! C'è solo un rubinetto all'esterno della casa da cui ci si puo lavare col secchio; e io penso di evitarmelo perchè non la privacy non è esattamente garantita. Forse potremo fare la doccia stasera dalla casa ancora vuota che stiamo affittando, ma senza acqua calda. E qui che ci si creda o no fa freddo perchè siamo in montagna.

E per finire in albergo non c'è nemmeno il bagno, solo la latrina ossia scatola-di-legno-puzzolente-con-il-buco, fuori dall edificio. E ho già menzionato gli escrementi di capra nel corridoio? Ommioddio voglio tornare a casa...

lunedì 14 giugno 2010

La casa latina

Per la prima volta da quando ho cominciato a vivere viaggiando, mi sono fatta un gruppo di amici italiani. Sono sempre stata così ansiosa di sprovincializzarmi, di aprirmi, di perdere il mio accento e i miei tic italici, che per anni ed anni ho evitato ogni contatto con i compatrioti all’estero. E devo dire che ho ottenuto il mio scopo. Non gesticolo, non parlo ad alta voce, ho un accento neutro e difficilmente identificabile. Nella stragrande maggioranza dei casi, la gente mi chiede se sono francese. A volte se sono olandese.

Vivo e lavoro con un gruppo di americani, e mi ci trovo benissimo. Mi piace il loro modo di fare, così energico, così pragmatico. Mi piace il fatto che si svegliano presto al mattino per correre prima di andare in ufficio, e che la gerarchia è completamente piatta. Il mio capo ha trentun anni ed è un mio coinquilino come tutti gli altri. Mi piace il fatto che si lavora tanto, che la grinta è la qualità più apprezzata, che l’età non conta, né la nazionalità. Conta solo come lavori.

Ma quando scende la sera, quando arriva il fine settimana, non sono mai stata così contenta di ritrovare i miei italianitos. Così rilassati e a loro agio con la vita. Così espressivi. Così cool (come direbbero i miei colleghi), senza nemmeno farlo apposta. Viene naturale. Così calorosi che passiamo la metà del tempo abbracciati gli uni agli altri. E anche l’umorismo è diverso, giocoso, fantasioso, senza le punch lines e il timing e il taglio graffiante dell’humor anglosassone. E poi balliamo, balliamo fino a tardi, fino a che siamo sfiniti, e non c’è nemmeno bisogno di bere perché la gioia di vivere l’abbiamo trovata inclusa nel pacchetto genetico.

A volte passo il pomeriggio nella casa latina, una bellissima villa sul lago dove vivono due meravigliosi ispanici. Si arriva, si parla, si beve un caffè. Si fa un bagno nel lago, una siesta sull’amaca. Non si contano le ore, l’importante è stare assieme. E la giornata scivola via lenta e oziosa, come se non esistesse che il presente.

sabato 12 giugno 2010

Dialoghi sparsi di un sabato a Goma

V: Che fai oggi pomeriggio, J?
J: Mi incontro con i miei amici della Costa d'Avoiro. Ci incontriamo sempre, fra di noi, una volta al mese.
V: Ah, che bello.
J: Sì, è importante trovarsi per scambiarsi le notizie del paese.
V. In che senso?
J: Sai, i giornali nazionali dicono solo bugie e quelli internazionali non parlano mai di noi. Allora ci dobbiamo organizzare per portare notizie fresche ogni volta che uno di noi torna a casa.

H entra focosamente nella stanza.
H: Non ne posso più!
V: Che succede?
H: Mi ha appena chiamato un membro della mia squadra, a Rutshuru. Dice che il training di lunedì deve saltare perchè non abbiamo chiesto il permesso alle autorità sanitarie.
V: Scusa ma che c'entrano le autorità sanitarie con questo training?
H: Assolutamente nulla!
V: E allora?
H: L'hanno comunque presa come una mancanza di rispetto.
V: Beh ma se non c'entrano nulla come possono impedirti di organizzare il training nei villaggi? Mica sono i padroni di Rutshuru.
H: E' semplice, faranno delle telefonate e diranno alla gente di non presentarsi. Ne sono capaci, l'hanno già fatto una volta.

Squilla il telefono.
X: Hey V, ho una domanda veloce.
V: Certo cara, dimmi.
X: Avete l'acqua in casa? Qui da noi non c'è da ieri sera e devo fare la doccia a mio figlio.
V: Sì, qui oggi funziona bene. Dai vieni a fargliela qui, ti aspettiamo.

K, uscendo.
K: Ciao a tutti, vado dalla sarta. Settimana scorsa al mercato ho comprato questa stoffa strepitosa e mi devo far fare il vestito. L'ho già negoziato a dieci dollari!
R: Hey, già che ci sei passa dal supermercato per prendere il burro di arachidi. Mi chiamato una mia amica dicendo che è arrivato il carico e se non ci sbrighiamo sarà esaurito entro stasera.

Il telefono squilla di nuovo.
T: Ciao V, come stai?
V: Bene, stamattina sono di ottimo umore, sento che mi sono proprio ripresa dalla tifoide.
T: Ottimo! Io invece ho ancora mal di schiena per le 6 ore di strada sterrata che ho fatto ieri tornando da Masisi.
V: Oh no! Ma stasera ce la fai a venire alla festa MONUC?
T: Sì, credo di sì. Mi hanno pure mandato l'invito scritto. Sai come sono gli Indiani. Mandano l'invito scritto anche quando ci offrono la cena nel loro accampamento sulle montagne, tre tende più in là.

venerdì 11 giugno 2010

La rivoluzione estetica

(Photo courtesy of http://rachel-in-goma.blogspot.com/2010/06/golden-chukadu.html)

Qualche settimana fa a Goma è successa una cosa mai vista. E' stata inaugurato un monumento. In una città fatta di macerie, di briciole, in questo ammasso disordinato di case rotte e di polvere, è sorta una statua. Un'opera d'arte.

Il mistero è rimasto incartato per mesi sotto una sventolante impalcatura arancione. La città vi si muoveva intorno, come sempre, col solito trambusto che ruota ai bordi della grande rotonda cittadina. Tutti si chiedevano che cosa ne sarebbe emerso. Una statua del presidente, si pensava. O a qualche politico corrotto che ha fatto i soldi sulle miserie della città.

E invece no. Ci ha beffati tutti, Goma, con la sua ironia pazzesca di città impossibile. E' nata una statua assurda, uno sberleffo, una barzelletta, e al tempo stesso un inno alla gioia. Una statua d'oro di un chookoodoo gigante, per glorificare l'inventività del popolo di Goma. Una statua geniale, che capovolge le priorità in questo mondo di usurpatori. Il trionfo dell'uomo piccolo, del commerciante, del bracciante. Di colui che si arrangia. Dell'uomo congolese.

Quando l'hanno inaugurato, decine di persone si sono riunite attorno al monumento dorato per giorni e giorni di fila, mai stanche di ammirarlo. In un mondo in cui l'arte non ha significato, questo buffo abbozzo di bellezza è un capolavoro. Lo specchio più autentico dell'anima di Goma.

mercoledì 9 giugno 2010

Arte Africana

Oggi ho comprato i miei due primi pezzi di arte africana! Qui a Goma ci sono parecchi rivenditori al dettaglio di statue e maschere locali: sanno che gli expats spesso sono interessati. Grazie a una serie di contatti sparsi per il paese, acquistano oggetti di artigianato in cambio di abiti, zucchero e capre. I prezzi sono alti, ma nulla al confronto al costo di questi oggetti una volta giunti in Europa.

Ho comprato una maschera bellissima, elegante, quasi stile art nouveau. Viene dalla regione Orientale, nel nord del Congo, dalla tribù Baquele. E’ una maschera dalla funzione speciale, appartiene alla casa del re del villaggio. Quando lui è in casa, la maschera è esposta. Quando esce, la maschera è nascosta. Lo rappresenta simbolicamente, in modo che tutti sappiano se il re è presente o assente.

Il secondo pezzo è in realtà una coppia di oggetti. Sono dei “poggiatesta” in legno, una specie di equivalente di cuscino. Non credo siano comodi, però sono belli. Uno per lui e uno per lei, regalo di nozze di un principe Baluba di un villaggio del Katanga, la provincia più a sud, al confine con lo Zambia. Tra i due listelli paralleli che li compongono (la base e il poggiatesta) sono scolpite due statuette, a mo’ di cariatidi, sedute una di fronte all’altra con gli arti intrecciati. Simmetriche e essenziali, ma allo stesso tempo giocose nella loro strana posa. Mi piacciono tantissimo.

domenica 6 giugno 2010

Grants

Spesso mi chiedono cosa mi piaccia del mio lavoro. Per la maggior parte delle persone qui sul terreno, il mio lavoro è pura e noiosa burocrazia. Certo, non ho il privilegio di passare le mie settimane in jeep 4x4 sui terreni accidentati di Rutshuru e Masisi. Non mi capita spesso di guardare negli occhi i beneficiari, né di passeggiare per i villaggi sperduti sulle montagne facendomi seguire da bambini urlanti. Detto questo, faccio un sacco di altre cose.

La scrivania di Grants è un punto di osservazione ottimale per capire il meccanismo dell’aiuto umanitario in tutti i suoi passaggi. Dal donatore a Washington al famoso villaggio dei bambini. Quali sono le fonti di denaro, come decidono di spenderlo, quali sono le loro priorità. Perché ovviamente ogni donatore ha priorità politiche ed economiche nel distribuire i suoi fondi. E da parte nostra, come i soldi vengono spesi, quali sono i trucchi per far quadrare i budget, come si misurano i risultati. Quelli veri e quelli su carta. Devo visitare tutti i progetti, facilitare la comunicazione interna fra i veri dipartimenti, essere al corrente di tutto quello che succede. Leggere, correggere, mettere in bella forma i rapporti trimestrali di tutti. Seguire l’andamento di ogni programma nel tempo, conoscerne i successi e gli insuccessi. Questo significa imparare come funziona ogni settore: educazione, salute, gender based violence. Almeno passivamente. E poco a poco verrà la parte strategica, quella di facilitare la preparazione di nuove proposte per aprire nuovi programmi. Poi sono d’accordo, ci sono anche parti noiose. Per esempio tutto quello che implica conoscere a memoria le regole dei donatori e verificare i contratti. Ma per il momento non mi sembra di potermi lamentare. Si tratterà poi di capire che direzione prendere, quando sarò pronta per la prossima tappa.

venerdì 4 giugno 2010

Nightmare n. I

In generale, mi sento sicura qui a Goma. Mi sento protetta, certamente piu' di quanto non mi sentissi quando vivevo sulla collina di Port of Spain, dove sentivo gli spari dalla finestra. Qui abbiamo guardie, piani di sicurezza, autisti, doppio filo spinato attorno a casa nostra. Abbiamo procedure e numeri di telefono e l'allarme.

Pero' si sa come funziona lo stress. Si accumula nell'inconscio, irrazionalmente, con il sovrapporsi di tante piccole cose che mettono a disagio. Come ad esempio ricevere durante il pranzo un sms di OCHA che informa sugli "affrontements tres violents" a nord di Kitchanga, dove abbiamo una base. E trovarsi a chiedersi tutti assieme se le nostre squadre siano sul terreno. "Dov'e' J? E' partita questa settimana? No, e' rimasta a Goma, menomale...".

L'altro giorno poi e' successa una cosa brutta. Dei ladri sono entrati in casa di alcuni miei amici italiani (che - va detto - vivevano in una villetta dalle misure di sicurezza assolutamente inadeguate). Durante una cena in compagnia, si sono visti arrivare in soggiorno tre uomini armati, che dopo aver legato le guardie e fatto sdraiare tutti per terra hanno fatto man bassa di orologi e cellulari. Per fortuna nessuno e' stato ferito, ma lo shock deve essere stato terribile.

Questa settimana B sta rivedendo tutte le nostre procedure di sicurezza, e le cita almeno dodici volte al giorno. E per coincidenza, anche il security officer e' qui a Goma per il week-end. Insomma, ultimamente un sacco di dettagli mi costringono a ricordare che non vivo esattamente in Svizzera.

E voila', stanotte e' successo. Ho avuto il mio primo, piccolo incubo. Mentre tuonava il temporale, sognavo che cadevano bombe. Prima o poi doveva capitare.

giovedì 3 giugno 2010

sospesa

Galleggio come una foglia
sulla pellicola fragile del presente
sulla membrana tra i due abissi
che si scioglie
nell'orizzonte di latte.

mercoledì 2 giugno 2010

La guerra per la terra

In Nord Kivu c'è la guerra, e questo è chiaro. Ma perchè ci sia la guerra, è meno facile da definire. Per cosa combattono, alla fin fine, tutti questi gruppi armati? E' una guerra inter-etnica? E' una guerra per il controllo del territorio? O per le risorse minerarie, come tanti occidentali sembrano pensare? Un esperto che ha vissuto e fatto ricerca in Nord Kivu per gli ultimi quattro anni mi ha confidato che a suo parere il motivo principale della guerra è la lotta per la terra.

Il problema della terra deve parte della sua complessità al fatto che in Nord Kivu non esiste un sistema univoco per stabilire a chi appartiene cosa. Anzi, al momento coesistono due sistemi legali contrapposti, che legittimano la proprietà privata con mezzi diversi. Il primo è il diritto tradizionale, basato sull’autorità dei mwami (re) e dei capi villaggio. I mwami, attraverso la rete di capi-villaggio che amministrano porzioni del loro territorio, sono la fonte di autorità che legittima il possesso del terreno. Se la mia famiglia ha vissuto per generazioni su una certa collina, il mio mwami mi riconoscerà ufficialmente come legittimo proprietario della terra, e ciò basterà perché tutti gli altri membri della mia tribù rispettino la mia proprietà.

Il secondo è il diritto moderno, secondo cui l’unica prova valida per possedere un terreno è un documento del catasto. Ora, bisogna tener conto che la nuova Costituzione del 2005 ha magicamente stabilito che l’intero territorio congolese appartiene allo Stato. Ergo, per poter diventare padroni di un appezzamento di terra bisogno acquistarlo dallo Stato stesso. Questo concetto, ovviamente, non è alla portata di tutti. Le masse di contadini analfabeti che vivono sulle montagne del Nord Kivu da generazioni e generazioni non sono state informate del fatto che devono affrettarsi ad acquistare il loro stesso terreno in un qualche polveroso ufficio di Goma. E anche se lo sapessero, probabilmente non avrebbero i soldi per comprarlo.

In Masisi, i Tutsi di CNDP sguazzano in questa confusione. Grazie a questa ambiguità, possono far arrivare tutti i loro amici Rwandesi con le valigette piene di contanti, e far loro comprare – in modo assolutamente legittimo – terreni che già appartengono a famiglie congolesi. E a che vale più la voce contraria del mwami, ora che lo Stato stesso dà loro ragione? L’affare diventa ancora più semplice se nel frattempo le famiglie congolesi hanno abbandonato il loro terreno a causa della guerra. Al loro ritorno, sorpresa! Troveranno casa loro occupata da stranieri rwandofoni. E’ questo che fomenta la guerra. E come mi diceva l’esperto: “In questa parte di mondo, i soldi ce li hai se sei un Tutsi”.