domenica 28 febbraio 2010

Un po' di storia II: Mobutu

La repubblica Democratica del Congo è sopravvissuta a una delle più grandi dittature che la storia ricordi. Quella di Mobutu. Mobutu ha preso il potere abbastanza presto, dopo l’indipendenza ottenuta nel 1960. Come succede sempre in Africa, era un generale e ha spodestato il governo con un colpo di stato. Ed è rimasto fino al 1996.

Ci sono un sacco di particolari sfiziosi sulla dittatura di Mobutu, a parte la solita noia sui dissidenti imprigionati, la propaganda mediatica, il partito unico e l’uccisione degli oppositori politici. Ad esempio una volta, non sapendo più cosa fare degli studenti che proprio non ne volevano sapere di non pensare, Mobutu ha deciso di chiudere tutti le università, di botto. E di integrare tutti gli studenti nell’esercito, senza possibilità di scelta. Per imparare un po’ di disciplina, forse.

Mobutu si è davvero sbizzarrito con il culto della personalità. Altro che i fascismi vecchio stampo! Lui intorno alla propria figura ha creato nientemeno che una religione, il Mobutismo. Mobutu uguale Dio. “Mobutu signore, Mobutu redentore, Mobutu salvatore”. Così cantava, la gente, in questo paese che allora si chiamava Zaire.

Bisogna dire che Mobutu non ha mai veramente governato con l’autorità. Con i soldi, piuttosto. Pagava, pagava tutti. Tanto i soldi c’erano, le multinazionali già mandavano qui i loro rappresentanti incravattati a stringere le mani di questi assassini. Era un governo incentrato sulla corruzione. Chi era al governo prendeva sempre e necessariamente dei soldi, solo per il supporto politico che dava al capo. Qui le istituzioni non sono mai state altro che questo.

E i soldi sono un modo semplice per rendere degli uomini fedeli. Solo che Mobutu aveva anche un vizietto. Andava a letto con tutte le mogli dei suoi collaboratori. Non gli bastava la moglie sua, né la sua amante da cui ha avuto quattro figli e che si portava in missione diplomatica assieme alla moglie vera, tanto che si presentavano a cena in tre. Doveva avere anche tutte le altre, tanto chi si poteva opporre? I collaboratori non fiatavano, ma certo dava un po’ fastidio.

Una volta un giornalista ha chiesto a Mobutu se era vero che pensava che la democrazia non fosse applicabile nel suo paese. E lui ha risposto. “Certo che è applicabile. Ma non alla lettera”.

venerdì 26 febbraio 2010

A criminal mind

Ogni venerdi mattina a Goma, l'agenzia ONU per gli Affari Umanitari OCHA chiama a raccolta tutte le organizzazioni attive sul territorio per diffondere informazioni sulla sicurezza nel Kivu del Nord. Sono riunioni interessanti. Si guarda tutti insieme la cartina proiettata sul muro, con delle stelline disegnate la' dove sono avvenuti incidenti piu' recenti.

Sono mesi tranquilli, questi. Dall'inizio di gennaio sono avvenuti appena 29 attacchi al personale umanitario, e se si considera che questa e' una zona di guerriglia non è malaccio. In piu', sono tutti attacchi di natura minore. E' bizzarro. Qui i gruppi armati si limitano a rubare spiccioli e cellulari, al massimo computers. Non prendono quasi mai le macchine degli espatriati, né tantomeno le loro vite. Gli attacchi contro i civili locali seguono invece tutta un'altra musica: scorribande, ruberie, uccisioni. Stupri, soprattutto. Leggevo qualche giorno fa sul giornale che e' ormai impossibile trovare qualunque articolo sulla situazione in Congo che non contegna la parola "stupro".

Ci siamo chiesti spesso come mai questi criminali si accontentano di così poco da noi stranieri. I soldati dell'esercito sono formalmente alleati con l'ONU, quindi probabilmente preferiscono non disturbare troppo la comunita' internazionale. Ma che dire dei gruppi ribelli? Forse non vogliono attirare troppo l'attenzione, hanno paura che un intervento piu' forte da parte degli stranieri possa cambiare uno status quo che fa loro tanto comodo. Ma nemmeno questa spiegazioni pare convincente. Forse non gli interessa avere le macchine degli espatriati perchè tanto non hanno i soldi per comprare la benzina. O firse è perché sono troppo riconoscibili, ed è difficile potrarle oltre alla frontiera dell'Uganda per rivenderle a chicchessia. Forse temono che possedendo delle automobili dovranno pagare delle tasse aggiuntive ai signori della guerra che controllano la loro zona. Infine, alcuni ipotizzano che sia un riflesso culturale. Nella mentalità congolese, lo straniero è sempre, in qualche modo, intoccabile.

In un certo senso, nessuna di queste spiegazioni tiene. Sono tutte ipotesi sollevate un po' a caso, che mostrano quanto poco capiamo di questo paese. Forse tra qualche mese sarà tutto piu' chiaro. Per ora, è un mistero.

mercoledì 24 febbraio 2010

martedì 23 febbraio 2010

Cena

In questi giorni la nostra casa e' piena di ospiti che vengono da tutte le parti del mondo. Le nostre cene diventano cosi' momenti di scambio interessantissimi, in cui vengo rapita da racconti ed immagini di luoghi talmente sperduti ed esotici da fare invidia a qualunque puntata di Superquark.

A quanto pare, sono praticamente l'unica del gruppo a non essere mai stata in Ciad. Strano ma vero, il Ciad e' il luogo piu' hip del continente per gli umanitari. Nulla da fare, ma un sacco di stelle. Tra le notti piu' poetiche delle loro vite. La vita al campo profughi pue' essere dura. E la capitale N'jamena fa proprio schifo. Molto piu' bella Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana, proprio li' di fianco. Davvero deliziosa, quella capitale, chi l'avrebbe mai detto? Solo che e' talmente povera che non c'e' nemmeno la corrente, hanno un generatore solo, a Bangui, una volta si e' rotto e tutto il paese e' stato per due settimane senza corrente, vi ricordate? Tutto il paese, ahahah! Che sagome 'sti centrafricani. Conservatori, poi! Mica come qui in Congo, tutti libertini. Oggi al mercato hanno visto che eravamo un uomo e una donna insieme e una signora ci ha chiesto se eravamo sposati. Quando abbiamo risposto scherzosamente "No, non ancora", lei ci ha chiesto "Ma almeno siete andati a letto insieme?". Ahahah! No, questo in Ciad non potrebbe mai succedere. Il Sud del Sudan pure e' bello, un po' sperduto ma bello. Poi e' esaltante pensare che fra poco sara' uno stato indipendente. Si', a Juba ci tornerei. Mica in Darfur, pero'. Troppo caldo. Anche se in Darfur con tutti gli espatriati che c'erano c'era un bel ricambio di merce Europea, noi ci faevamo sempre portare il Brie. Anche se non era facile passarlo alla dogana. Sara', ma sempre meglio delle dogane in Palestina. Li' mi fermavano ogni volta che passavo solo perche' c'avevo la barba. Davano i voti ai passanti in transito, a seconda di quanto erano sospetti. Dal livello 1 per i cittadini israeliani, al livello 6 per quelli affiliati al terrorismo. Solo perche' lavoravo in una ONG mi davano sempre 5. Quando andavo a Gaza mi davano 6...

Di questo e di molto altro ancora si parlava l'altro ieri sera, a cena.

lunedì 22 febbraio 2010

Primo incontro, in ufficio

Sono venuta qui per sostituire P, e spero di esserne all’altezza. Poche volte ho incontrato una ragazza così in gamba, così professionale, così tosta. Deve avere la mia età, ma quando parla sento che ha più esperienza di me. E’ abituata al comando, non la imbarazza avere due persone che dipendono da lei. Dovrò gestire io R e A, a partire da lunedì. Non l’ho mai fatto, ho un po’ paura.

P è mezza congolese mezza iraniana. E’ bella, sicura di sé, carismatica. Forse perché ha trascorso una vita incredibile, che se non l’ha fatta impazzire l’ha resa geniale. Un infanzia in Congo, in un villaggio. Ricorda di quando si faceva la doccia con l’acqua piovana raccolta nella cisterna dietro casa. E adolescenza in Iran, nel mezzo degli anni novanta, durante la repressione. La polizia islamica bussava alla sua porta quando ascoltava Michael Jackson, come nei fumetti di Marjane Satrapi. Un’adolescenza di noia, a quanto dice lei. Non c’era nulla da fare e solo quattro canali alla televisione, e chi aveva l’antenna rischiava di brutto. Una volta un suo vicino si è fatto cuccare con la parabolica, qualcuno ha fatto un soffiata, e si è beccato un po’ di botte. “Ha superato il trauma”, ha glissato lei col sorriso. E poi università in Francia, dove finalmente è stata libera.

E ha l’aria tutta Parigina, questa ragazza. Un po’ impertinente, un po’ peperina, un po’ principessa. Ma anche straordinariamente gentile, calorosa, umana. E’ lei che mi ha organizzato la piccola seratina di benvenuto, la prima sera . Mi dispiace doverla sostituire, avrei voluto lavorare con lei. Ora però deve tornare a New York, dove abita. Il suo quarto continente in meno di trent’anni. Dove continuerà a vivere come una stella danzante.

domenica 21 febbraio 2010

I congolesi si chiedono: "E se andassimo tutti a vivere a Haiti?"


- Sembra che gli Haitiani vivano come noi: senza fissa dimora.
- La differenza è che là il cibo cade dal cielo.

Courtesy of Congo Blog Ba Leki.

Fiesta

Nel mondo dell’umanitario si fanno delle feste fantastiche. Sarà perché siamo tutti fuori casa. Giovani, vitali. Senza famiglia, senza gruppo di amici precostituito. Sarà perché non si sa mai che cosa fare dopo il lavoro, se non ineluttabilmente consumare la propria pigna di DVD portati da casa, sul proprio laptop, sul proprio letto. Sarà perché durante i nostri lavori siamo a contatto con cose serie, molto serie. Allora si organizzano feste folli, tutti insieme, almeno ci si conosce. Feste tutti i momenti, per tutti i gusti, in tutte le case di tutte le ONG di Goma.

Ieri ce n’è stata una lanciata da una organizzazione inglese, e l’altro ieri da dei francesi. Mi trovo qui da poche settimane e già conosco un quarto della gente. Si balla, si beve, si ride. La gente si approccia, ci prova. Sono tutti in cerca di amici, tutti in cerca di sesso. Girano gli ormoni, alle feste degli espatriati. Bisogna saper tenere le distanze. Io ballo sempre, se appena metti su un po’ di musica io ballo, non ho bisogno d’altro. Mi diverto come una quindicenne. L’importante è giocare, sempre e comunque. Giocare e non farsi mangiare.

sabato 20 febbraio 2010

Nel mio giardino



Haiti

Oggi c’è stata una riunione straordinaria per tutte le ONG che operano a Goma. Uno dei finanzatori più importanti per i progetti di emergenza deve ridurre drasticamente i fondi destinati a questa regione. Il motivo di questo taglio improvviso è di natura mediatica. I soldi verranno dirottati su Haiti, che è stata colpita da un terribile terremoto meno di un mese fa.

I giornali non parlano d’altro, i canali di notizie hanno trasmesso aggiornamenti di ora in ora per i primi quindici giorni dopo la catastrofe. Tutto il mondo si è impietosito per Haiti, l’isola triste in cui pare che una carestia e un colpo di stato negli ultimi anni non siano stati sufficienti. E quindi gli americani ci vanno, e con loro gli Europei, in una lotta a chi pianta per primo la propria bandierina.

C’è bisogno di visibilità, nell’umanitario. E’ importante che il Presidente degli Stati Uniti possa fare un bel discorso sull’intervento americano, perché tutti sappiano. Poco male se si tace che i soldi sono stati portati via dal Congo. Quante persone negli Stati Uniti sanno dove si trova il Congo? Quanti sanno che c’è una guerra in Congo? Quanti sanno che il Congo esiste? E così Haiti si trova sommersa di soldi, milioni e milioni di dollari. Come verranno impiegati? Come verrano sprecati? Certo, c’è Port au Price da ricostruire, ma poi? Quanto verrà scosso il fragile mercato Haitiano da un influsso di denaro così copioso? Sono domande di cui non so la risposta.

Spero solo che di tutti questi soldi ne benefici chi ha davvero bisogno. Che sia negli altopiani Africani o nel Mar dei Caraibi.

giovedì 18 febbraio 2010

Supermercato

Nel mondo del lavoratori umanitari in Congo, quelli basati a Goma sono oggetto di particolare invidia per uno specifico motivo. A Goma c’è il supermercato. Dove si comprano prodotti occidentali.

L’hanno aperto da poco, un annetto o giù di lì, ed è stata la benedizione dell’expat che si deve sorbire mesi e mesi di banane fritte e manioca. In realtà, se comparato a un supermercato europeo l’analogo locale ha ben poco di cui vantarsi. Un minimarket di paese, ecco a cosa sembra. Ma la cosa più sorprendente sono i prezzi. Ero stata avvertita, ma non avevo realizzato la portata del furto. Mezzochilo di pasta (Barilla!), tre scatole di pelati, sei yogurt, sei mele, uno shampoo e una bottiglia di olio d’oliva. Sessantuno dollari americani. “Forse non mi posso permettere le mele”, penso preoccupata. Apro il portafoglio, e tiro un sospiro di sollievo. Ho una banconota da cento dollari.

Ma qui arriva la vera sorpresa. Non me la accettano. Perché è rotta, dicono. Un angolo è smangiato, non va bene. Anche qui, a essere onesta, devo ammetterlo. Ero stata avvertita. Qui accettano solo dollari belli, lisci, senza pieghe. E se le pieghe ogni tanto possono passare, le lacerazioni no. Nemmeno di un millimetro.

Io però non desito. Sono cento dollari, cento! Il capo del supermercato viene alla cassa e mi propone un accordo. Ti accettiamo i cento, ma ce ne teniamo venti. “Dico, ma c’ho scritto cretina in faccia?”, vorrei dirgli. Poi mi mordo la lingua. C’ho scritto in faccia che sono bianca, quindi secondo loro infinitamente abbiente. Gli lascio le mele, l’olio, lo shampoo. Prendo quello che posso con trenta dollari, ciò che mi rimane. E come resto chiedo monete lavate, stirate e inamidate, da riporre nel cassetto con un sacchettino di lavanda.

Un po' di storia I

La Repubblica Democratica del Congo era una colonia belga. Anzi, non esattamente. Era una colonia del re del Belgio. Proprietà privata, apparteneva a lui. Non allo Stato, a lui, personalmente. Come un terreno qualunque, solo che era grosso quanto l’Europa occidentale. Il suo giardino, grande quanto un tredicesimo di tutto il continente africano. La sua casa delle vacanze, voilà.

Non c’è da sorprendersi che sia stato uno sfruttatore despotico e cieco. Non doveva rendere conto a nessuno, né a un governo, né a un popolo. La ruberia delle risorse del territorio era unicamente rivolta a riempire il suo conto in banca. La capitale non si chiamava nemmeno Kinshasa, si chiamava Leopoldville. Perché il proprietario si chiamava Leopoldo. E ditemi se tutto questo non si può spiegare con un pizzico di psicanalisi…

mercoledì 17 febbraio 2010

Curriculum

Stavo chiacchierando con i miei nuovi amici R e R. Entrambi expats, entrambi consumati avventurieri dell’umanitario.

Mi dicevano che esiste un nuovo formato di curriculum, per chi lavora nel nostro settore. Che oltre alle solite sezioni sugli studi, l’esperienza lavorativa e le lingue, affiancherà un piccolo questionario per capire quanto ci si è spinti in là, nel lavoro sul campo. Questi sono alcuni esempi di domande.

Hai mai dovuto fare una valutazione di un’area a dorso di mulo?

Hai vissuto senza acqua corrente per almeno un mese?

Hai mai mangiato riso per più di quaranta giorni di fila?

Ridevamo, e ridendo mi rendevo conto che loro avrebbero risposto sì a molte di quelle domande. Poi abbiamo cambiato argomento. Abbiamo parlato di calcio.

Corruzione

La corruzione è endemica. Si sa. E’ il Congo, porca miseria. Ma non intuisco la portata del fenomeno finchè J non me lo spiega, con calma, come fossi una bambina. “Qui rubare è normale, assolutamente normale. Quasi tutti gli impiegati locali che sono incaricati di comprare le attrezzature per i progetti, ci fanno la cresta. Quando comprano computer e quando comprano matite, è la stessa cosa. E non solo chiedendo al rivenditore di fatturare un prezzo più alto per poi dividere i soldi che avanzano. I ragazzi sono sofisticati, e utilizzano trucchi molto elaborati per rubare all’organizzazione. In fondo, per loro questa è una quantità incredibile di soldi. Più soldi di quanti e abbiano mai visti in vita loro.”

Continuo a bere la mia birra, mentre J parla senza sosta. E’ russa, è vissuta qui due anni, ha una casa propria e una macchina propria e oramai ha capito molto bene come si sopravvive in questa terra di nessuno. Mi torna in mente che stamattina mi prendeva in giro, per la mia ingenuità. Mi lamentavo perché il cameriere dell’albergo non ha mai il resto quando compro l’acqua, tanto che devo sempre comprare più bottigliette di quante ne abbia bisogno. “Ma come, non l’hai capito? Ti dice che non ha il resto perché vuole che tu gli lasci i soldi in più come mancia”. E io cado dalle nuvole. Ma chi se lo aspetterebbe che un cameriere incamiciato di uno degli alberghi più eleganti della regione cerchi di raggirarmi per intascare un misero dollaro americano?

martedì 16 febbraio 2010

Piazza principale



Un'enorme rotonda vuota con un muretto rosa...

African notes

Oggi pomeriggio l’ufficio ha organizzato una piccola festa d’addio per i molti colleghi che ci lasceranno nelle prossime settimane. Arrivo in un momento di transizione, in cui la maggior parte delle persone stanno facendo i bagagli. Colgo atmosfere di addio, rendiconti finali, un po’ di amarezza, un po’ di stanchezza, un po’ di pienezza. Io arrivo fresca di mondo di fuori, e non riesco a cogliere tutti questi trascorsi. Né mi interessa. Aspetto pazientemente che l’avventura cominci per me, senza sprecare le mie energie a captare la vita degli altri.

La festa si è svolta in Africa, contrariamente alla maggior parte delle manifestazioni della comunità internazionale. Una scelta coraggiosa, per certi versi. Fuori dal centro battuto di Goma, in un grande spiazzo all’aperto circondato di capannucce in legno con pavimento di terra. Qualche frigorifero conteneva le bibite e qualche pentola cuoceva cibo sospetto, su fornelletti poggiati a terra, nell’ombra. Una piattaforma di cemento nel mezzo era la nostra pista da ballo, e abbiamo ballato fino a notte.

C’erano soprattutto locali, nel gruppo. Noi expats eravamo la minoranza e gli africani si sentivano a loro agio in un ambiente che sentivano proprio e a cui eravamo noi, per una volta, a doverci adeguare. E’ stato bello, i colleghi sono magnifici. Molti ballano già alla maniera africana, alcuni hanno pure imparato un po’ di Swahili. Ragazzi bianchi che hanno fatto un vero sforzo di capire il posto dove sono venuti a lavorare, nonostante le difficoltà di creare ponti fra le due culture. Sono orgogliosa della mia organizzazione, stasera.

E’ stata una bella festa, molto genuina. Mi sono trovata circondata di africani in festa, sotto la luna piena, nella povere e nella sabbia. Nel caldo e nel sudore delle notti tropicali. Nella musica congolese, nella birra calda. Nel francese africano di certi uomini scuri che mi insegnavano come si balla, col sedere all’indietro, e muovendo le spalle.

domenica 14 febbraio 2010

giocolieri

Quante ONG internazionali ci sono qui a Goma? Tante, tantissime. C’è chi dice sessanta, c’è chi dice cinquecento. “Il circo dell’umanitario”, come lo chiamano da queste parti.

Sono venuta nel centro di questo vortice di aiuti per osservare il lavoro concreto, dopo tutta la burocrazia ariosa dell’ONU. Il lavoro di field, porca miseria. Quello che salva le vite. E ora che sono qui comincio già a sentire voci critiche. Che questo è un sistema assurdo, che non si combina niente, che ci sono tantissimi soldi che girano senza che cambi mai nulla. Che le organizzazioni sono tutte in lotta fra loro, lotta spietata per i fondi, una competizione per l’ultimo dollaro. Pochi donatori, somme alte, tantissime organizzazioni che sgomitano per vincere bandi.

Intanto i congolesi si trovano ed essere beneficiari di migliaia di piccoli progetti che si susseguono istericamente. E abituati a sopravvivere tra una guerra e una carestia, finiscono per pensare solo ad una cosa. Ad approfittarsene. Approfittarsi di questi bianchi confusionari e un po’ allocchi che spargono soldi in giro, perle ai porci. Approfittarsi perchè non c'è mai nulla di gratuito nella vita, e quando c'è bisogna tenerselo stretto.

Allora quando arriva l’esperto in food security gli dicono che non hanno zappe, è per questo che non possono coltivare la terra. Così l’esperto redige il progetto delle zappe, e gliene manda a casa di nuove, direttamente dall’America. E il Congolese le rivende al mercato nero il mattino dopo, facendoci pure la cresta. Tanto l’esperto è già altrove.

Questo, almeno, è quello che ho sentito dire.

Chookoodoo


Il chookoodoo è un mezzo di trasporto che si trova unicamente nell'area di Goma, in DR Congo. Non ha un motore, quindi può andare solo in discesa. E' costruito interamente in legno e porta fino a 400 chili. I villaggi intorno a Goma sono tutti più in alto rispetto alla città, quindi i piccoli commercianti possono cariare la loro merce sul chookoodoo e scendere fino al mercato la mattina. Molti ragazzini lo usano come un enorme monopattino, per spostarsi in città. A volte però frenare non è semplice...

sabato 13 febbraio 2010

Ipotesi di fuga

Le regole sugli spostamenti inside Goma variano da organizzazione a organizzazione. Io e i miei colleghi non siamo autorizzati a guidare e ci dobbiamo affidare agli autisti perfino per andare al supermercato. Al contrario, altre organizzazioni lasciano le automobili in mano a chi ci lavora. Automobili non è un temine esatto, perché si tratta in ogni caso di jeep mastodontiche, quasi ridicole nella loro stazza. Quando F mi è venuta a prendere a bordo di quel carro armato, non ho potuto fare a meno di sorridere. Ho pensato che fosse un’esagerazione. E invece esagerazione non è, dato che 14 mesi fa Goma è stata a un passo dall’assedio da parte dei ribelli.

Salto sul sedile situato a un metro da terra, e lei prende in mano la ricetrasmittente. Dice il suo nome in codice, si localizza, comunica dove sta andando. Qualcuno dall’altra parte prende nota. “Scusa, è prassi”, accenna con disinvoltura. Io rimango impressionata. Richiama quando arriviamo al bar, deve specificare che è arrivata a destinazione sana e salva. La nostra cena è interrotta dal radio check serale. La chiamano. “Nomeincodice, tutto bene?”. “Sì base, tutto tranquillo”. E poi li richiama quando si esce, per dichiarare il percorso di ritorno. Mi sembra un’assurdità, mi sembra un film. Mi sembra un gioco. Ho la fastidiosa sensazione di non aver ancora capito dove siamo.

La stessa che ho provato quando il mio collega R ha detto che la barchetta “parcheggiata” di fianco alla nostra terrazza potrebbe essere utile in caso di evacuazione. Ho riso, pensavo fosse una battuta. Invece era serio. “Il confine col Rwanda è vicino, all’occorrenza basta remare un po’”, ha aggiunto, a mo’ di spiegazione.

Crociera


Che paesaggio magnifico, il lago Kivu! Mi sono goduta tre ore di crociera da Bukavu a Goma, col sole che scotta e il vento in faccia, planando sulla superficie liscissima dell'acqua. Questa parte di Africa è tutta costellata di pozze d'acqua e vulcani. E' il grande Rift, la spina dorsale del continente, che si apre in paesaggi selvaggi e sublimi. Nulla a che vedere con le foreste tropicali dell'ovest, nè con la svana degli altipiani. E' un paesaggio fiabesco, fatto di prati, colline, laghi azzurri. Laghi ampi come pianure di cui non si vede la fine, come prati di un diverso colore. Intorno, le dolci colline dell'Africa più benevola, florida, fertile, di un verde cristallino luccicante di vita. Il sole si riflette nell'acqua e la lunga traversata continua, tra le due estremità del lago.

giovedì 11 febbraio 2010

Rapid response mechanism

Sto leggendo il final report del nostro progetto RRM, rapid response mechanism. Un programma pluriennale che ha servito migliaia e migliaia di sfollati con viveri, generi di prima necessita', coperte, saponi, attrizzi da cucina, teli per impermeabilizzare i tetti delle abitazioni, docce, latrine, impianti per l'immodonizia. Ha curato malnutrizione, epidemie di colera, diarrea, tifo. Ha riabilitato scuole, distribuito quadreni, pagato insegnanti. Un progetto enorme, difficilissimo da gestire, di cui tutti si lamentano. Ma che ha salvato migliaia di vite.

Un progetto che chiude, e non perche' i bisogni siano esauriti. Chiude per politica, perche' ai donatori non piace finanziare un progetto d'urgenza per piu' di tre anni. Significa che non e' urgenza, o che non fa effetto. I donatori vogliono i risultati, quel genere di risultati che fanno dire alle conferenze internazionali : mission accomplished.

Poco importa che sul terreno ci sono ancora quasi due milioni di sfollati che non possono ritornare a casa perche' i gruppi armati hanno in mano la zona. E aspettano pazienti nei campi profughi, senza scuole, senza sistema sanitario, senza acqua pulita. O stanno a casa di parenti o amici che vivono in un'altra citta', che devono dividere il poco che hanno con altre tre o quattro famiglie ospitate. O che hanno il coraggio di tornare a casa, nelle zone tranquille, e le trovano distrutte o vandalizzate, non ci sono piu' nemmeno le pentole.

Ma l'emergenza e' finita, la guerra e' passata. Siamo in fase di ricostruzione, lo dicono i giornali. Possiamo andarcene.

mercoledì 10 febbraio 2010

Spot the differences

Non sopporto la differenza tra noi e loro. Quando mi hanno detto quanto guadagna il mio assistente mi è venuto un colpo. Praticamente quello che io prendo di per diem. In più a me arriva lo stipendio.

Una differenza enorme che si giustifica a vari titoli. Per esempio, noi espatriati dobbiamo avere degli stipendi comparabili a quelli dei nostri coetanei europei, altrimenti nessuno più vorrà lavorare nel settore umanitario. D'altro canto, anche i locals devono essere pagati secondo i loro standards, anzi già si prendono un bello stipendietto, comparato alle altre persone del posto. Poi si può dire che noi espatriati abbiamo qualifiche infinitamente più alte. Lavoriamo infinitamente di più. Abbiamo infinitamente più responsabilità.

Può essere. Anzi certamente è così, nella maggior parte dei casi. Ma io penso al mio assistente, che è bravissimo. Che si sta laureando in ingegneria. Che viene la mattina alle otto e se ne va nel tardo pomeriggio. Che un sacco di volte mi ha spiegato le procedure, specialmente durante i miei primissimi giorni a Goma. E penso che non è giusto che tra me e lui ci sia una differenza così abissale, solo perchè lui ha avuto la sfiga di essere nato in Congo. Sarà una banalità, ma è una banalità che io guardo in faccia tutti i giorni.

E quindi lui non ha i soldi, non ha la casa sul lago, non ha il pranzo preparato dal cuoco. Oggi dopo la pausa gli ho chiesto ancora una volta di venire a mangiare da noi, non fa bene saltare il pranzo. Lui ha risposto che è "complicato". Poi stasera qualcuno ha fatto la battuta che "alcuni restano in ufficio fino a tardi perchè sperano di approfittare di un passaggio con le macchine degli expats". Lui mi ha guardata negli occhi, e poi ha bisbigliato, serissimo: "Odio queste cose. Torno a casa a piedi, piuttosto di far credere che lavoro fino a tardi per avere un passaggio. Ed è per questo che è meglio non andarci, nella casa degli expats, per pranzo".

martedì 9 febbraio 2010

Transit


Nella mia stanza d’albergo mi sembra di essere su una grande barca. Sono talmente vicina al lago che non vedo che acqua dalla finestra. Per vedere un pezzo di terra devo sporgermi oltre il vetro e guardare a destra e a sinistra, torcendo il collo. Il lago è bellissimo. Piatto, blu, tranquillizzante. Mi sembra di essere in un non-luogo, in mezzo al mare, sospesa nello spazio e nel tempo. Un lungo viaggio silenzioso prima di attraccare nella casa degli expatriates, dove mi trasferirò domani. Mi piace questo silenzio, questo sabato mattina. Mi voglio prendere qualche ora di nulla, dopo una settimana di troppo. Nella mia camera all’ombra, appoggiata su un lago di sole.

Strade di Goma

Goma ha solo una strada asfaltata, tutto il resto è terra e polvere. Ci si muove su grandi fuoristrada che vanno a passo d’uomo, molleggiatissimi su questo terreno accidentato. Varrebbe la pena andare a piedi, ma è proibito. A piedi si può andare solo in alcune zone. Dove ci sentiamo “comfortable”, dicono le regole. Io non mi sento comfortable da nessuna parte, sono appena arrivata. Quindi vado solo in macchina. E dopo il calar del sole non se ne parla per nessuno di uscire a piedi, nemmeno per fare cinque metri. C’è pure il coprifuoco, ma quello è un pro forma, è fissato alle 2 di notte. Giusto per mantenere l’abitudine ad avere un orario.

Spesso si vedono veicoli UN in giro, tutti bianchi, un po’ assurdi. Jeep, camion, pick-up. Tante volte con su dei militari attrezzati di mitra. Passano come delle visioni, semi trasparenti. Non ci fa caso nessuno. Poi ci sono le persone vere, gruppi di bambini, gonne colorate, giovani uomini in moto. Le donne portano frutta in testa, su grandi vassoi. I bambini chiedono soldi. Bisogna fare attenzione che non rubino la borsetta. Non sono pittoreschi, sono una potenziale minaccia. Niente di allarmante, ma bisogna tenere gli occhi aperti. Qui il divario tra locals e expats è incolmabile, siamo visti davvero come degli alieni. Per loro siamo tutti ricchi. Tutti stupidi, pronti a farsi fregare. Ci sono un sacco di moto, sono i taxi locali. Non ci sono i taxi su quattro ruote, solo su due. Ma non expats non li possiamo prendere, non in Congo. In Rwanda sì, oltre la frontiera. Il Rwanda è un altro mondo. Qui è meglio usare i nostri autisti, sono qui per questo. Guidano le nostre jeep con gli adesivi di riconoscimento, e appiccicato alla portiera un foglio bianco che dice: “No Weapons”.

Fiore d'acciaio

Stamattina ho fatto colazione con V. L’ho incontrata nella hall dell’albergo e abbiamo deciso di mangiare insieme prima di andare in ufficio. V. ha più di cinquant’anni, è bella, ha gli occhi azzurri e i capelli biondi e si veste con maglie spesse e foulard blu cobalto, che le danno un’aria di guerriera della luce. Gestisce uno dei nostri programmi più importanti, su sulle montagne, dove imperversa ancora la guerra. Unofficially, of course. Perché ufficialmente va tutto bene, la guerra è finita, l’esercio regolare ha il totale controllo del territorio.

Un programma in cui è necessaria un’esperienza pluridecennale, sono diciassette centri i salute da gestire nell’emergenza, isolati e sprovvisti. Non ci sono nemmeno i dottori, in questi centri. Nemmeno i dottori congolesi ci vogliono andare, in quella zona. E’ troppo malmessa. Troppo battuta dal combattimento. Troppo povera. E infatti ci curano la gente ferita con armi da fuoco, o le donne che devono partorire e non sanno dove andare. Devono farsi bastare qualche infermiere, un training frettoloso e via, senza troppi complimenti. Lei però non ha paura, le fa un baffo stare in mezzo alla guerra. Nemmeno le minacce di morte le fanno impressione, ne ha già ricevute due ma lei se ne frega. Non che sia un’incosciente, anzi è saggia. Ha vissuto in moltissimi paesi africani, soprattutto in conflitto, sa benissimo quello che significa lavorare in questi contesti. Ma ci vuole pure qualcuno che lo faccia, altrimenti chi ci pensa a ‘sti poveri cristi?

Mentre mi parla mi sento piccola, piccolissima. Io che gioco a fare l’eroina perché sono venuta fino a Goma e me ne sto in un albergo sul lago con tutti i comfort, faccio proprio ridere di fianco a questa signora d’acciaio, di trent’anni più vecchia di me, che a quest’ora se ne sta qui invece che pensare ad una sana vita da pensionata au bord de la Seine. Le chiedo cosa ne dice la sua famiglia, i suoi tre figli e altrettanti nipoti, non si preoccupano per lei? “Ora sono abituati, ma in passato il mio lavoro ha avuto forti ripercussioni sulla mia vita familiare. Quando ero in Darfur è successo un incidente e sono stata catturata. Mentre ero nelle prigioni sudanesi la mia famiglia ha sofferto moltissimo. Da allora non vogliono sapere più nulla di quello che faccio. Lo rispettano, ma non vogliono sapere nulla. Fa troppa paura.”

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Vivo a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo. Proprio in mezzo all'Africa, al confine tra Congo e Rwanda. Qualche chilometro a Nord, l'Uganda. Qualche chilometro a sud, il Burundi. E' una delle zone più calde del mondo, a livello umanitario. Non so come ho fatto ad arrivare, di solito le organizzazioni internazionali hanno bisogno di gente esperta, per lavorare qui. I novellini possono andare altrove, a farsi le ossa in zone di conflitto meno incasinate. Invece mi hanno assunta, magari perchè ho già fatto un lavoro simile, o perchè la guerra dovrebbe essere finita. Dovrebbe.

Mi piace pensare che la mia precedente esperienza sul campo sia stata determinante. Nei Caraibi. E' lì che ho imparato cosa significhi avere problemi di sicurezza. Bande armate, delinquenza, omicidi. Che ho imparato ad adattarmi a una cultura diversa, a vivere secondo tempi, logiche, accenti differenti. Ma non credo che la gente lo capisca. Quando dico Caraibi tutti pensano alle spiagge, alle lune di miele. E invece mi ha svezzata, the blue Caribbean sea. Tanto che voilà, eccomi qua, al centro di una delle maggiori crisi umanitarie del pianeta. A fare del mio meglio per fare qualcosa.