martedì 9 febbraio 2010

Fiore d'acciaio

Stamattina ho fatto colazione con V. L’ho incontrata nella hall dell’albergo e abbiamo deciso di mangiare insieme prima di andare in ufficio. V. ha più di cinquant’anni, è bella, ha gli occhi azzurri e i capelli biondi e si veste con maglie spesse e foulard blu cobalto, che le danno un’aria di guerriera della luce. Gestisce uno dei nostri programmi più importanti, su sulle montagne, dove imperversa ancora la guerra. Unofficially, of course. Perché ufficialmente va tutto bene, la guerra è finita, l’esercio regolare ha il totale controllo del territorio.

Un programma in cui è necessaria un’esperienza pluridecennale, sono diciassette centri i salute da gestire nell’emergenza, isolati e sprovvisti. Non ci sono nemmeno i dottori, in questi centri. Nemmeno i dottori congolesi ci vogliono andare, in quella zona. E’ troppo malmessa. Troppo battuta dal combattimento. Troppo povera. E infatti ci curano la gente ferita con armi da fuoco, o le donne che devono partorire e non sanno dove andare. Devono farsi bastare qualche infermiere, un training frettoloso e via, senza troppi complimenti. Lei però non ha paura, le fa un baffo stare in mezzo alla guerra. Nemmeno le minacce di morte le fanno impressione, ne ha già ricevute due ma lei se ne frega. Non che sia un’incosciente, anzi è saggia. Ha vissuto in moltissimi paesi africani, soprattutto in conflitto, sa benissimo quello che significa lavorare in questi contesti. Ma ci vuole pure qualcuno che lo faccia, altrimenti chi ci pensa a ‘sti poveri cristi?

Mentre mi parla mi sento piccola, piccolissima. Io che gioco a fare l’eroina perché sono venuta fino a Goma e me ne sto in un albergo sul lago con tutti i comfort, faccio proprio ridere di fianco a questa signora d’acciaio, di trent’anni più vecchia di me, che a quest’ora se ne sta qui invece che pensare ad una sana vita da pensionata au bord de la Seine. Le chiedo cosa ne dice la sua famiglia, i suoi tre figli e altrettanti nipoti, non si preoccupano per lei? “Ora sono abituati, ma in passato il mio lavoro ha avuto forti ripercussioni sulla mia vita familiare. Quando ero in Darfur è successo un incidente e sono stata catturata. Mentre ero nelle prigioni sudanesi la mia famiglia ha sofferto moltissimo. Da allora non vogliono sapere più nulla di quello che faccio. Lo rispettano, ma non vogliono sapere nulla. Fa troppa paura.”

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