martedì 24 agosto 2010

Cronaca

L'atmosfera si scalda, qui in Nord Kivu. E come al solito per noi espatriati e' difficile capire cosa provochi queste ondate di violenza, e cosa significhino. In questi giorni, due notizie locali sono arrivate ai giornali di tutto il mondo.

Primo, l'uccisione di 3 caschi blu all'interno della base MONUSCO di Kirumba in Sud Lubero, alle 2 di notte del 18 Agosto, da parte di membri della popolazione locale armati di machete. L'episodio e' stranissimo almeno per due motivi. Perche' e' avvenuto all'interno di una base MONUSCO, prima di tutto. E perche' non e' stato eseguito da ribelli regolari con armi da fuoco, ma da civili, semplicemente con il loro machete. Il machete, di solito usato per tagliare gli alberi e la frutta, da oggetto domestico si trasforma in un'arma primitiva e brutale, che in questa parte del mondo ricorda inesorabilmente il massacro in Rwanda nel 1994. Non e' facile capire cosa possa spingere dei locali a uccidere dei caschi blu. Non ho sentito nessuna interpretazione convincente.

Il secondo episodio e' stato lo stupro di massa da parte di FDLR, questo weekend, a Walicale. I rapporti ufficiali dicono che sono state violentate 179 donne, il che significa che in realta' ne sono sono state colpite molte di piu'. Il Congo, si sa, e' la capitale mondiale degli stupri. Ma cosi' tante donne stuprate tutte assieme e' qualcosa di rivoltante, di sconvolgente perfino per gli standard locali. In una manciata di villaggu, centinaia si donne sono state prese per strada, in casa, davanti ai loro figli e ai loro mariti. Nessuno poteva prevederlo, nessuno ha potuto fare nulla. E' successo, e il giorno dopo era sul New York Times. E noi qui a Goma leggevamo il New York Times online.

Ma non sarebbe giusto dire che noi qui non ci accorgiamo di nulla. L'atmosfera si fa sempre piu' pesante. Venerdi' sera e' stato ammazzato un ragazzo davanti al Coco Jambo, non so come, forse in una rissa. E io sabato sera ero li' a cena con i miei colleghi, e mi stupivo che fosse tanto vuoto e che non ballasse nessuno. E dei banditi hanno sparato sulla nostra ambulanza, sabato pomeriggio. E settimana scorsa abbiamo ricevuto nuove minacce a Rutshuru.

Il Nord Kivu trema, e nessun sa cosa significhi. Forse sono semplici scosse d'assestamento. Forse e' l'inizio di un nuovo terremoto.

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domenica 22 agosto 2010

Strana storia

Febbraio. Sono arrivata a Goma da poche settimane e mi trovo al supermercato, una sera, verso l'ora di chiusura. C'e' solo un ragazzo con me in fila alla cassa. Abbiamo un attimo di eye contact, ci sorridiamo. Lui mi fa due domande su chi sono e da dove vengo, poi usciamo dal portone e ognuno prende la sua strada.

Qualche giorno dopo, in ufficio, ricevo una chiamata sul mio cellulare. E' uno sconosciuto. Penso subito che si tratti di qualcuno che cerca lavoro, come capita a volte. Invece dopo aver tergiversato un po', il tizio mi dice che mi ha conosciuto al supermercato, in fila alla cassa. Io ovviamente mi irrito, chiedo chi gli abbia dato il mio numero e gli dico che non ho tempo da perdere. Metto giu', e mi dimentico sedutastante dell'accaduto.

Fast forward.

Un mese fa. Sto cenando al Petit Bruxelles con un collega. Ad un certo punto entra un nostro semi-amico in compagnia di un ragazzo alto, che mi pare di conoscere di vista. Porta un cappello inclinato sulla fronte, e una camicia ampia usata come giacca. Il mio collega lo indica discretamente, e mi dice che' e' uno che ha connections in tutta Goma, dai neocoloni agli strozzini del ghetto. Registro l'informazione, e ritorno a parlare d'altro.

Fast forward.

Ieri sera. Sono a una bella festa improvvisata a casa del mio amico J. C'e' un sacco di gente, anche molte persone che non conosco. Entra il ragazzo alto, con il suo tipico cappellino e la camicia aperta. Abbiamo un attimo di eye contact, ci sorridiamo.

Piu' in la' nella serata, sul dancefloor. Lui balla veramente bene. Dopo un po' di studio reciproco, ci mettiamo a ballare assieme. E' molto divertente, molto giocoso, con solo un velo sottile di flirt. Ridiamo, scambiamo due parole. Lui e' congolese e cresciuto in Kenya e lavora alla MONUSCO e fra sei settimane lo trasferiscono ad Haiti. Verso la fine della serata mi dice che il giorno dopo andra' a fare un giro in barca con i suoi coinquilini, e mi invita ad andare con loro. Tra i conquilini c'e' una ragazza australiana che sta ballando accanto a noi. Quando lui ci presenta lei mi fa subito un bel sorriso, e mi incoraggia a partecipare alla gita. Io acconsento, e gli lascio il mio numero.

Fast forward.

Oggi. Li aspetto alle 11 di mattina come promesso, ma non arriva nessuno. Ne' alle 12. Penso che non vogliano piu' venire, che abbiano cambiato piani. Invece alle 4 del pomeriggio suona il telefono, e' lui, dice che arriveranno davanti a casa mia in barca tra cinque minuti. Quando mi affaccio, li vedo. Non sono su un motoscafo, ne' su un gommone. Sono su una specie di barca da pescatori scalcinata, con solo congolesi a bordo. Di primo acchito sono un po' scettica, ma poi quando  intravedo la ragazza australiana mi rassicuro. Salto in barca, mettiamo in moto. C'e' una bell'aria pulita, l'atmosfera rilassata della domenica pomeriggio.

Parlo un con lui, che visto da vicino e alla luce del giorno ha innegabilmente un che di zingarsco. E' simpatico, e selvatico. Ha sempre su il suo cappellino. Mi racconta un po' di lui, fra una battuta e l'altra. Mi sorprende sapere che e' cresciuto per le strade di Mombasa, orfano, come un ragazzetto di strada qualunque. Beve whisky, fa lo scemo. Si tuffa in acqua con un salto mortale all'indietro. Tutta la combriccola sulla barca mi ricorda i tempi di Trinidad, quindo passavo le mie giornate con i ragazzacci della collina.

Il sole sta per tramontare, il vento sta montando, le onde cominciano ad essere alte ed io ho un po' paura di schiantarci contro gli scogli. La situazione peggiora i frertta, e due o tre volte mi preparo a saltare in acqua con la borsa a tracolla per nuotare fino a riva. Tra me e me, comincio a chiedermi come diavolo faccia a trovarmi sempre in queste situazioni al limite dell'assurdo. Alla fine troviamo una baia riparata, riusciamo ad attraccare, saltiamo a terra. Siamo finiti nella proprieta' privata di qualcuno, dobbiamo uscire saltando il cancello. Poi, un po' strapazzati per l'avventura, ci mettiamo in marcia verso casa.

E mentre camminiamo, lui ad un certo punto mi osserva il viso attentamente per un paio di secondi, e all'improvviso un'espressione di sorpreso riconoscimento emerge dai suoi occhi. "Adesso ho capito chi sei!", esclama. "Tu sei quella che ho incontrato al supermercato, all'ora di chiusura, mesi e mesi fa. E ti sei pure arrabbiata come me quando ti ho telefonato". Io rimango stordita qualche secondo, ma poi il ricordo emerge in tutta la sua vividezza.

E a quel punto, non posso fare a meno di scoppiare a ridere.

giovedì 19 agosto 2010

Cinicism

B e' appena entrato in cucina, ridendo. "Things are getting hot, girls. Hanno sparato sull'ambulanza."
"Che cosa?" Chiedo io distrattamente, mettendo il piatto nel microonde.
"Hanno sparato!", continua ridendo. "Sulla nostra ambulanza, quella di Rutshuru. Era sul terreno, come sempre, portava una in ospedale. Tra l'altro una che stava perdendo sangue. E boom!, gli spari. Things are getting soooo hot out there".
Io sono un po' confusa. Mi sembra che non ci sia continuita' tra quello che dice e il modo in cui si comporta. Poi, all'improvviso, capisco. "La tua e' una risata isterica, mi pare".
Lui non mi da retta, e contionua a parlare. "Hanno sparato, capite? E l'autista e' uscito dalla macchina e si e' nascosto tra i cespugli, lasciando la donna sanguinane dentro.".
"L'autista era un membro del nostro staff?", chiede H, pragmatica come sempre.
"No."
"Ah, beh. Meno male."
"Ma e' ferito?", chiedo io.
"No, no, e' solo scappato. Solo che la poveraccia e' rimasta dentro. Adesso stiamo chiamando la MONUSCO perche' vada a vedere e faccia qualcosa."
Io mi sento d'un tratto a disagio. Non mi piace il modo in cui parlano della poveraccia. E' uno dei nostri beneficiari, accidenti.
Guardo B e H, entrambi visibilmente eccitati dalla storia. Lo so che loro non sono persone insensibili, tutt'altro. Che e' naturale, dopo tanto tempo, prendere distacco dalle cose. Non si puo' essere emotivi su tutto, se no non se ne viene piu' fuori.
Suona il timer, la mia zuppa e' calda.
"Ma chi e' che ha sparato?", riprende H, dopo qualche secondo di silenzio.
"Non si sa", dice B. "I soliti. Sono zone con ribelli. Magari volevano soldi."
"Certo che sparare sull'ambulanza...", dico io sottovoce, quasi tra me e me. Il piatto scotta, devo prenderlo con la pattina.
"Beh, dall'esterno sembra una macchina normale, bianca, da ONG. E c'e' pure il nostro logo sopra".
"Ma e' un attacco politico?", chiede ancora H.
"No, propbabilmente no, ma a questo punto non si puo' escludere nulla", dice B, all'improvviso indossando la sua voce professionale. E poi scoppia a ridere, di nuovo. "Ma ci credete? Il capo di Kinshasa sta adorando questa storia. Vuole essere tenuto al corrente minuto per minuto.".
"Beh, si', l'atmosfera si sta certamente riscaldando. Di certo non ci si annoia.", concludo io con nonchalance. Devo dire che l'episodio intriga anche me, in un certo qual modo. "Mi passi il pepe, per cortesia?".
B me lo passa, facendomi un sorrso.
E' sempre gentile nei piccoli gesti, penso io sorridendogli di rimando.
Poi lui fa per uscire dalla stanza, e proprio nel momento in cui tocca la maniglia, decide di voltarsi per dirci un'ultima cosa. Un'ultima cosa che mi fa pensare che c'e' qualcosa di eccessivo, in questo cinismo. Di spaventoso. Che stiamo diventando persone peggiori, con questo lavoro da umanitari. Le sue parole ancora mi rimbombano in testa.
"E poi, ragazze", dice sfoderando il piu' glorioso dei suoi sorrisi. "Vi immaginate che effetto fa una storia cosi' sui donatori? La sparatoria sull'ambulanza vende, eccome se vende. Statene sicure".

mercoledì 18 agosto 2010

Vacanze

Organizzare una vacanza non e' mai stato cosi' stressante. Voglio andare in Uganda, con mio fratello A, a vedere i gorilla. Ma i permessi per vederli sono limitati, e l'autorita' centrale del turismo Ugandese mi dice che non se ne trovano fino a fine settembre. Io penso che se non vado in vacanza subito muoio, e allora mi metto all'opera per cercare soluzioni alternative.

Ovviamente, inciampo nelle mafie delle agenzie turistiche locali. Dopo vari e accorati tentativi ne trovo un paio che mi rispondono al telefono, e mi dicono che con estrema difficolta' si puo' trovare un permesso solo un giorno preciso all'inizio di settembre, ma bisogna pagare tutta una serie di tasse amministrative perche' la prenotazione abbia successo. Dopo una settimana di tentennamenti sono quasi pronta a sganciare il malloppo quando casualmente chiacchierando con un amico qui a Goma, lui mi passa il numero di cellulare di una guardia del parco forestale Ugandese, con cui ha fatto amicizia il mese scorso. Chiamo prontamente la guardia, gentile come non mai, che mi dice che non c'e' assolutamente problema. E dopo giorni di scambi epistolari mi prenota due visti per la data che voglio io, senza costi aggiuntivi. Yo-hoo.

Oltre alla saga dei permessi, c'e' quella del mio passaporto. Il mio passaporto e' ancora a Kinshasa per fare il VISA d'etablissement di cui ho bisogno per lavorare in questo paese. Tempo amministrativo medio: 10 settimane. Che per me sono state di pu' perche' la procedura e' stata interrotta quando ho preso il tifo. Certo, se ci decidessimo a pagare qualche mazzetta sarebbe tutto piu' rapido, ma ovviamente non se ne parla. Alla fin della fiera, sono ancora senza docuemnti, il che non e' tranquillizzante dato che ora come ora il posto piu' sicuro in cui io possa fuggire e' Kigali. Memore dell'esperienza dei miei colleghi che hanno aspettato i loro passaporti fino all'ultimo minuto (letteralmente) prima di salire sul loro volo, io cerco di calcolare i tempi per l'operazine amministrativa. Il che naturalmente significa altri scambi e telefonate supplichevoli con la logistica di Kinshasa perche' non facciano casino.

Visto che si va in Uganda, ho tra l'altro anche bisogno di chiedere un particolare permesso al capo della mia organizzazione nel paese. In caso ci fossero problemi, devono sapere dove sono per farmi evacuare. E vada.

A questo punto, si tratta di pensare alla vacanza stessa. L'Uganda e' un paese meraviglioso, ma come spostarsi? Le agenzie vendono pacchetti turistici assolutamente ridicoli nei prezzi e molto poco avventurosi. Si pensa di prendere una macchina, ma non so se sia sicuro attraversare il paese da soli, con strade accidentate. Che succede se si rompe, e noi restiamo per strada in mezzo al nulla sensza copertura di rete cellulare? Forse e' meglio affittare una macchina con l'autista? O andare in bus? Questi bus squinternati dove si viaggia con capre e galline?

E infine, c'e' il volo da prenotare con la nostra logistica che non ne azzecca una, trovare la linea budgetaria su cui caricarlo, organizzare il visto di passaggio attraverso il Rwanda, chiedere l'anticipo dei soldi  in contanti perche' qui non esistono bancomat, prenotare l'albergo dove non rispondono mai al telefono. E cercare di trovarmi poi qui il lunedi' mattina seguente, fresca come una rosa, a condurre un meeting per l'apertura di un nuovo programma.

domenica 15 agosto 2010

Music Box


Una stanza grande e vuota, all’ultimo piano del palazzo sul Boulevard. Al posto della parete c’e’ una vetrata, e poi un terrazzo, e poi la coltre di luci sparse di Kinshasa. Da dentro, tutto e’ deformato dalla luce color fragola che inonda la stanza. Il terrazzo bianco sembra giallo. Il cielo antracite sembra blu cobalto. Siamo in un caleidoscopio di luci alterate. Nuotiamo in questi colori irreali come pesci in un acquario.

E’ tutta vuota, questa casa. Ci sono solo strumenti musicali e tappeti. Niente mobili, niente sedie. Solo chitarra, microfono, looper, amplificatori, pedali. Tappeti e cuscini sul pavimento, come fosse una tenda nel deserto, tutti portati dal Marocco. Ci son voluti 700 dollari in corruzione per attraversare la dogana con tutta quella roba, ma ne vale la pena per trasportare la propria anima.

A tocca la chitarra e comincia a suonare. Io, H e M, sdraiati sui tappeti ruvidi, ci prendiamo addosso questa pioggia di note, succubi della loro potenza. E’ musica composta da lui, piena di suoni nordafricani. Prende avvio un concerto privato in una dimensione parallela. Un’onda di suoni e di luci cosi’ densa che quasi non rimane aria per respirare.

Poi A tace, e lascia spazio alla musica del Sahara. Suoni del popolo Sarahawi, perso nel vuoto del deserto. E su queste note cominciano a parlare del Marocco, tutti e tre. Della sua magia, dei suoi colori. Dei festival nelle citta’ dell’interno, del vento nelle strade. Per A quella e’ casa, per M il nomade la terra di sua madre. Per H e’ la prima esperienza da espatriata che l’ha catturata per due anni interi. Nasce un dialogo di ricordi fra persone che si conoscono appena. Pieno di particolari precisissimi, di riferimenti a sensazioni che condividono in modo spaventosamente esatto per essere perfetti sconosciuti.

Abbiamo incontrato A e M venerdi’ sera all’Ibiza bar, un locale di fuoco con rumba dal vivo che ti si schianta sul petto. E non ci e’ voluto molto per ritrovarci tutti assieme in quella stanza vuota di cose e gravida di luce, a condividere l’indicibile. La musica andrebbe sempre ascoltata cosi’. In un cubo vuoto impregnato di colore.

Les vieux riches

Qui a Goma esiste un gruppo di neo-colonizzatori. Erano tutti in prima fila, venerdì sera, in un tavolo riservato apposta per loro al Coco Jambo. Il Coco è il locale di riferimento della città, dove ci si ammazza di ballo fino al mattino quando non ci sono feste private. Venerdì c'era un concerto jazz dal vivo, incredibile ma vero. Per l'occasione si è presentata tutta Goma, un raduno senza precedenti. Parlo della Goma bianca, ovviamente, più le prostitute. C'eravamo tutti, ONU, ONG, consultenti, militari. E tra noi circensi dell'umanitario c'era anche questa famiglia, una tavolata da venti, gli unici con la tovaglia. Con le loro camicie bianche, i bicchieri di vino. C'erano tutte le generazioni, in puro stile patriarcale.

La maggior parte li conosco di vista, o poco più. Sono i proprietari dei ristoranti, dei negozi, delle imprese più importanti della città. Non sono affaristi rampanti come i libanesi, che si sposano fra loro, lavorano come pazzi e accumulano miliardi con i supermercati e i ristoranti a basso costo. Questi sono discendenti Belgi, tutti mezzi mulatti, con appezzamenti di terreno e tenute e aziende sconfinate. Sono loro che possiedono le ville dove si fanno le feste più estreme. Quella con la piscina riscaldata e il giardino progettato da un architetto di esterni. Quella di quella domenica pomeriggio in cui mi sembrava di essere in un video musicale, in cui si aprivano casse di champagne come fosse coca-cola.

Sono i discendenti dei coloni, rimasti qui come se l'indipendenza non fosse mai avvenuta. Hanno mantenuto i loro terreni a Masisi, con famiglie locali che ci vivono dentro, coltivando lotti di terreno che non gli appartengono. La nuova versione del feudalesimo. Sono i padroni della città, la gente li riconosce a vista, non pagano nemmeno nei bar. Vanno dietro al bancone e si servono da soli. Non sarebbe difficile, entrare nel loro gruppo. Beneficiare del loro potere, del loro lusso. Frequentare questi congolesi ricchi sfondati, piuttosto che i folletti umanitari che cambiano casa ogni sei mesi. Ascoltarli mentre parlano di come gestiscono gli affari. Del fatto che devono prendere l'elicottero per vedere come vanno le cose alla miniera.

Quanto sangue hanno, sulle loro mani, questi ragazzi così belli, così ricchi? E quanto continuo a farli arricchire, io, semplicemente stando qui? Io che uso le automobili vendute da loro, che affitto le loro case sul lago, che vado a prendere l'aperitivo il mercoledì sera nell'hotel dei loro genitori? Quanto contribuisco allo status quo, io che ci ballo assieme la sera, e mi faccio offrire da bere?

venerdì 13 agosto 2010

Due ragazzi sani

A Kinshasa ho conosciuto un ragazzo che lavora in microfinanza. Cioe' microcredito, microassicurazioni, microfondi. Tutto micro per i paesi in via di sviluppo. Lui di sviluppo non sa niente, non sa nemmeno cosa significhi l'acronimo UNDP, che tra l'altro e' uno dei donatori del progetto a cui sta lavorando. Lui viene dal settore privato, e prima era ricercatore all'univerista' di Rabat, dove e' nato e cresciuto. Sorrideva mentre me lo raccontava: "Di solito i marocchini fanno di tutto per emigrate verso nord, io ho fatto il contrario". Il suo giro al contrario non e' dovuto a ragioni etiche, ne' estetiche. Per lui Kinshasa e' come Parigi, un posto dove lavorare. Certo, gli fa piacere contribuire allo sviluppo di un paese, ma in fondo lui e' li' per fare affari. Bisogna smettere di storcere il naso quando sentiamo questa parola. Lui mi diceva che e' solo cosi' che si da' dignita' alla gente. Non facendo distribuzioni di non-food-items, ma trattandoli da partner alla pari, facendo firmare dei contratti. "Per me i Congolesi sono come i Marocchini, come gli Europei. Io non sono qui per fare un favore a nessuno. E ti giuro che loro lo apprezzano, questo rispetto".

L'eco di questa conversazione si e' sentita ieri, mentre me ne stavo al Petit Bruxelles a prendermi un bicchiere di vino con un amico spagnolo. Lo ascoltavo in silenzio, mentre mi faceva un'analisi lucida e spietata sulla vita di Goma. "Qui la gente impazzisce. Passa tutti i weekend a ubriacasi e ballare e andare a letto con perfetti sconosciuti. Ma non ci rendiamo conto che siamo in uno degli angoli piu' belli del pianeta? Io il weekend prendo la macchina e me ne vado in Uganda, a vedere gli scimpanze'. In Rwanda a fare campeggio nella foresta tropicale. Altro che questa claustrofobia malata! E poi qui la gente lavora sempre, di giorno, di notte, nel weekend. Bisogna smetterla. Lavoreremmo cosi' tanto, in Europa? Mai e poi mai! La gente lavora cosi' perche' si sente sola, ecco perche'. O perche' viene qui con pretese impossibili di cambiare le cose. Per romanticismo. Ma e' un romanticismo inutile. In fondo, l'unico mezzo per fare del bene a questo paese e' fare professionalmente cio' per cui siamo pagati. Basta. Senza impazzire, senza andare in esaurimento nervoso. Son tutti dei ragazzini, qui. Ragazzini bruciati, o dissoluti. Il problema alla base, e' che bisogna smettere di pensare che siamo dei lavoratori umanitari, con uno stile di vita da umanitari. Sono tutte panzane. Io sono un ingegnere, nulla di piu'. Gestisco un progetto agrario. Solo che al posto che lavorare a Madrid lavoro a Goma."

giovedì 12 agosto 2010

Horror vacui

L'ho gia' detto, sono in fase anticlimatica. Sto precipitando. Forse e' per questo che mi sforzo di vivere senza sosta: per non cadere vittima dei miei pensieri. Ho solo voglia di uscire, uscire e non pensare. Stancarmi, esaurirmi. Fisicamente, emotivamente. Mi sento bulimica di vita, di cose. Basta non stare mai sola. Non pensare ne' a ieri ne' a domani.

Non me ne importa nulla di perche' sono qui. Dei beneficiari, dell'umanitario. Sono qui per consumarmi, in questo strano caleidoscopio onnideformante che e' Goma. Il mio mondo e' piccolissimo, chiusto tra un vulcano e un lago. Tra una terrazza ventosa e un ufficio al terzo piano. Tra una manciata di persone rigorosamente bianche che hanno problemi d'amore o di alcolismo o di memoria.

giovedì 5 agosto 2010

Life juice

A volte la vita qui e' di un'intensita' che stordisce. Che inebria, che esalta, come una scarica di adrenalina, come una droga. E che dopo ti lascia vuota, e persa.

Ho appena vissuto tra le due settimane piu' intense che possa ricordare. Non ho praticamente dormito. Lavorare di giorno, uscire di notte. Viaggiare, scoprire, capire. Da quando ho preso quel volo e' stata una scarica di corrente continua, che si e' chiusa stamattina, credo, quando sono entrata in ufficio come ogni normalissimo lunedi', trovandomi tutto d'un tratto sola.

Non si puo' scrivere tutto quello che e' successo, e' impossibile. Ma in quindici giorni ho assistito a una delle confessioni di piu' tragiche, strazianti, tenere e disperate che ascoltero' mai nella mia vita. Ho abusato di flirt a tempo perso, smodatamente. Ho gettato le basi per quella che credo diventera' l'amicizia piu' importante di questa fase di vita. Ho scoperto Kinshasa, l'anima di una citta' calda, dolente, complicata e stancante. Ho avuto momenti magici, da libro, in quella casa vuota piena di musica e di luce rosa. Ho avuto chili di affetto gratuito che affondera' nel vuoto della memoria. Una telefonata inattesa da molto lontano. Ho avuto giorni senza sonno. Pranzi e cene con amici e amiche, vecchie e nuove, in ristoranti da 3 dollari o da 30, senza interruzione. Riunioni di lavoro, voli d'aereo, piani cambiati ogni singolo giorno. Ho ballato fino allo sfinimento, in feste private, in un casino di club diversi, con gente diversa, di paesi diversi, di cuori diversi. Senza mai riuscire a lasciare la serata prima dell'ultima goccia. Ho avuto parole dolci, e silenzi tristi. Fumo, vino, stelle. Ho nuotato in un lago di giorno, in una piscina di notte. Ho improvvisato una cena per dodici. Ho avuto una notte infinita che mai piu', mai piu', mai piu' nella vita mi capitera' di eguagliare.

E ora non resta piu' nulla, e' sparito tutto. E sono stanca. E tutto d'un tratto mi sento sola.

Kin

Kinshasa e’ una grande citta’. Infinitamente piu’ simile al nostro concetto di citta’ di quanto non sia Goma. Ha strade asfaltate, traffico, palazzi alti. Palazzi brutti, per la maggior parte, in stile un po’ sovietico. Sembra tutta un’immensa periferia abbandonata di qualche citta’ occidentale. Ogni tanto si vedono edifici coloniali, ancora dalle belle forme. Ma inevitabilmente sfatti, degradati, fatiscenti.

Eppure Kinshasa non e’ una citta’ deprimente, tutt’altro. E’ viva come non mai, ti colpisce come un pugno. Esiste una scena artistica assolutamente degna di nota, e Kinshasa e’ apertamente riconosciuta come una delle piazze musicali piu’ appassionanti del continente. La rumba scorre a fiumi, ci sono centinaia di gruppi musicali, entri in un locale e ti trovi nel fuoco incrociato di jam sessions di altissimo livello.

Come dice B, i Congolesi riescono sempre, anche nel mezzo dello schifo e della distruzione, a dare un certo “twist” alle cose, a renderle “edgy”. Ad aggiungere un non-so-che che le rende insolite, eccitanti, argute. Il Congolese, essenzialmente, e’ un creativo sbruffone, un teppista sfacciato, un esteta underground. E questo e’ vero a Kinshasa in particolare, dove non si respira l’aria traumatizzata dell’est. Kinshasa e’ la Roma di Petronio : decadente, sgraziata, eppure sensuale. E gli abitanti sono linguacciuti, impertinenti, ironici ed impeccabilmente eleganti.

La prima sera io e H abbiamo cenato in un ristorante indiano su una terrazza in cima ad un palazzo del centro, con una bella vista sulla citta’. Di notte, tutte le citta’ sembrano uguali. In cima a quella terrazza, potevamo essere in America. Se non fosse che per arrivarci abbiamo fatto sette piani di scale in un edificio fantasma. Ogni piano era diverso dal precedente, in un’escalation di fatiscenza e degrado. Insegne di uffici chiusi da anni, gradini scalcinati, luci rotte, puzza di urina. Faceva perfino paura. Per poi arrivare in cima e venire accolte con un sorriso da un distintissimo cameriere in divisa.