mercoledì 14 aprile 2010

Dream Team

La vicenda di Rutshuru mi ha insegnato moltissimo. In moltissimi sensi. Dopo una settimana dalla notizia degli attacchi, mi sento immensamente cresciuta. Io e una manciata di altre persone ci siamo trovati di fronte alla crisi, e l’abbiamo affrontata. E il fatto che il capo era in vacanza e molti senior staff erano fuori Goma ha aumentato esponenzialmente la responsabilità che mi sono trovata tra le mani. La responsabilità di dover agire in fretta.

Per qualche giorno, eravamo solo in tre. E in tre abbiamo pensato, agito, lavorato. Lavorato, scritto, pianificato. Quando non lavoravamo, parlavamo di Rutshuru. Quando non parlavamo, è perché stavamo lavorando. I pranzi e le cene servivano per discutere. Il sabato è servito per un meeting straordinario. C’erano così tante cose a cui pensare. Dopo l’attacco alla clinica la nostra coordinatrice sul campo è stata fermata, mentre andava in macchina, da un gruppo di giovani. Che le ha detto che non l’avrebbero ammazzata perché quel giorno stavano già seppellendo altri cadaveri. Parole testuali.

Dovevamo fermare le attività, immediatamente. Bloccare il ritorno sul campo pianificato per lunedì. Ma allo stesso tempo ricominciare a pagare i sussidi negli ospedali, se no tutto il nostro programma sarebbe affondato. I nostri capi da lontano non capivano questa realtà, pensavano che avremmo dovuto continuare a rifiutarci di pagare per fare in modo che la gente si accorgesse della nostra mancanza. E invece no, questa era una strategia sbagliata, sensata ma sbagliata. Perché si basava su un assunto errato. Sull’assunto che i beneficiari potessero alzare la voce per chiedere il nostro ritorno, mentre invece non era possibile, perché i nostri nemici sono troppo forti. Sono personalità politiche-militari molto più in alto di quanto si pensasse all’inizio.

Dovevamo fermare le attività sul campo, e pensare a come spiegarlo ai donatori. Ai donatori che ancora non hanno firmato i contratti, e che di fronte a una sospensione totale dei lavori potrebbero rifiutarci il loro sostegno, facendoci perdere un mucchio di soldi. E’ dall’inizio di marzo che sosteniamo la baracca con fondi nostri, in attesa delle firme. Tutti i donatori sono oberati dai progetti per Haiti, sono tutti in ritardo. E poi un altro problema. Che fare di tutto il nostro personale? Delle trentacinque persone che avevamo evacuato a Goma e che stavamo mantenendo in albergo? Per quanto tempo ci potevamo permettere di tenere in piedi questa situazione?

E in più nel frattempo – che fortuna! – cominciavano a girare voci sullo scoppio un’epidemia di colera. E noi che siamo l’operatore medico più importante della zona avevamo le mani legate perché non ci potevamo muovere sul campo. Allora cominciamo a pianificare un piano di emergenza, di risposta al colera senza muoverci da Goma. Chiederemo a Medici Senza Frontiere, di trasportare i medicinali. Toglieremo gli adesivi alla nostra ambulanza, così non la riconosceranno. Dovremo chiederlo ai donatori, se sono d’accordo che si tolgano gli adesivi. Per loro la visibilità è la cose più importante.

Ma per tutto questo servono le autorizzazioni dei capi che sono lontano, e allora via! Comincia a scrivere. Ero io, quella che scriveva tutto. Dei tre, ero quella con meno esperienza di campo, e di gran lunga. Ero quella meno capace di organizzare una reazione tempestiva. Però ero quella a cui piaceva scrivere. Ho scritto al management, ai donatori, alla comunità umanitaria. Pagine e pagine di spiegazioni per convincere tutti a supportare le nostre idee. Per far capire quello che ci stava succedendo. Per far arrivare il messaggio che il problema era grave, e bisognava agire in fretta. In fretta.

E devo dire che ha funzionato, il dream team. Siamo stati davvero bravi. Non mi era mai successo di lavorare in squadra in modo così bello, così assoluto, così concreto. Con un impegno di tutti al cento per cento, in funzioni diverse, senza nemmeno doverci organizzare. Ognuno di noi era così proactive che offriva subito ciò che poteva fare al meglio, senza risparmiarsi, senza nemmeno chiedere. Offriva e basta, e il lavoro andava avanti. Come ho detto a un amico, se non fosse stato triste, sarebbe stato bello. Sento gratitudine, quando ci ripenso.

Ora le cose sono più tranquille, ci hanno mandato un capo da Bukavu, un security advisor da Kinshasa. Hanno accettato di farci sospendere i programmi, di farci pagare gli incentivi, di far partire una risposta d’urgenza contro il colera. Hanno accettato tutto quello che abbiamo chiesto. Abbiamo informato tutti, dissipato i pettegolezzi, sistemato il personale, assicurato i finanziamenti. Ora bisogna pensare al lungo termine, alla strategia. Siamo fuori dalla crisi. E in casa siamo rimasti senza caffè.

3 commenti:

  1. Grandissima. Per quello che fai e per come ce lo racconti. Non ho altre parole ;)

    RispondiElimina
  2. Ci fai stare con il cuore in gola, ma l'anima che ci hai messo ci ripaga ampiamente.

    RispondiElimina
  3. e ora sono pronta per una bella vacanza! :)

    RispondiElimina