Oggi pomeriggio l’ufficio ha organizzato una piccola festa d’addio per i molti colleghi che ci lasceranno nelle prossime settimane. Arrivo in un momento di transizione, in cui la maggior parte delle persone stanno facendo i bagagli. Colgo atmosfere di addio, rendiconti finali, un po’ di amarezza, un po’ di stanchezza, un po’ di pienezza. Io arrivo fresca di mondo di fuori, e non riesco a cogliere tutti questi trascorsi. Né mi interessa. Aspetto pazientemente che l’avventura cominci per me, senza sprecare le mie energie a captare la vita degli altri.
La festa si è svolta in Africa, contrariamente alla maggior parte delle manifestazioni della comunità internazionale. Una scelta coraggiosa, per certi versi. Fuori dal centro battuto di Goma, in un grande spiazzo all’aperto circondato di capannucce in legno con pavimento di terra. Qualche frigorifero conteneva le bibite e qualche pentola cuoceva cibo sospetto, su fornelletti poggiati a terra, nell’ombra. Una piattaforma di cemento nel mezzo era la nostra pista da ballo, e abbiamo ballato fino a notte.
C’erano soprattutto locali, nel gruppo. Noi expats eravamo la minoranza e gli africani si sentivano a loro agio in un ambiente che sentivano proprio e a cui eravamo noi, per una volta, a doverci adeguare. E’ stato bello, i colleghi sono magnifici. Molti ballano già alla maniera africana, alcuni hanno pure imparato un po’ di Swahili. Ragazzi bianchi che hanno fatto un vero sforzo di capire il posto dove sono venuti a lavorare, nonostante le difficoltà di creare ponti fra le due culture. Sono orgogliosa della mia organizzazione, stasera.
E’ stata una bella festa, molto genuina. Mi sono trovata circondata di africani in festa, sotto la luna piena, nella povere e nella sabbia. Nel caldo e nel sudore delle notti tropicali. Nella musica congolese, nella birra calda. Nel francese africano di certi uomini scuri che mi insegnavano come si balla, col sedere all’indietro, e muovendo le spalle.
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