martedì 24 maggio 2011

Pugno

Quando uno fa questo lavoro, non e’ ci stia a pensare tutto il tempo, a quello che sta facendo. Soprattutto se uno se ne sta prevalentemente seduto alla scrivania, a interagire con donatori che a loro volta se ne stanno seduti alla scrivania. Tu a Goma, loro a Washington. Tu con le zanzare, loro con l'aria condizionata.

Uno mica ci sta a pensare, che le “2,700 survivors of gender based violence” assistite in media ogni anno col nostro programma sono donne in carne ed ossa. Che in genere hanno subito uno stupro.

E poi se pure uno ci pensa, non e' che ci soffre. Non empatizza. Figuriamoci se dovessimo empatizare ogni volta. Mi ricordo quando facevo il mio stage a Ginevra tre anni fa, nell'unita' di violenze sessuali, e mi leggevo i rapporti sullo stupro come arma di guerra in Darfur. Ci stavo cosi' male che mi mettevo a piangere leggendo, di fianco allo scatolotto bianco dell'aria condizionata. Ora no, e' routine. Sono solo numeri, e' il mio lavoro.

Eppure ogni tanto, ma proprio ogni tanto, magari una volta ogni tre o quattro mesi, uno legge una frase formulata in modo un po' diverso. Basta un dettaglio. Magari una frase letta con meno fretta, o una frase trascritta. Una frase a caso fra le mille, che inspiegabilmente colpisce come un pugno in faccia. E uno non ce la fa a continuare. Uno ci prova ad andare avanti a lavorare, c'e' la deadline a fine giornata e poi bisogna uscire a prendere una birra alle sette. Pero' e' impossibile, bisogna fermarsi, minimo trenta secondi di immobilita', di respiro difficoltoso. Di nausea e voglia di vomitare.
Mi e' successo oggi, quando ho letto che il Congo "e' definito il peggiore posto al mondo per essere donna". Una frase stupida da hit parade. Che avevo gia' letto un sacco di volte. Una frase che normalmente mi irrita, perfino. Populista. Sensazionalista. Non tecnica. Definito da chi? In base a che cosa?

Pero' oggi per qualche motivo questa frase mi ha fatto venire in mente una cosa. Una cosa che ho visto domenica, quando andavo a fare un pic-nic sul lago con le mie amiche. Una cosa normalissima. Una donna che camminava accanto a suo marito in una strada di campagna, e che trasportava sulla schiena due casse di birra, piegata in avanti come un mulo.

Una visione quotidiana, assolutamente banale. Le donne portano sempre dei pesi allucinanti, qui. Intere fascine di legno sul gobbo. Forse questa volta l'ho notata perche' io non ho mai provato a trasportare una fascina di legno, ma so quanto pesano due casse di birra. Quando l'ho vista ho pensato che era una cosa terribile, come sempre. Ma non mi sono veramente dispiaciuta per lei. Il mio filtro emotivo e' troppo spesso per tirare in ballo il dispiacere per cosi' poco.

Pero' oggi, quando ho letto quella frasetta retorica, la signora mi e' venuta in mente con una potenza incredibile. Un immagine nitida che reclamava, esigeva la mia attenzione. E mi ha dato pugno in faccia.

martedì 15 marzo 2011

Vaccini

Come intuibile, prima di mettere piede in Congo e' necessario sorbirsi una buona dose di vaccini. Non tanto - o non solo - per sopravvivere alla pletora di malattie tropicali di brulicano in questo ridente angolo di mondo. Ma anche - o soprattutto - per evitare discussioni con le autorita' doganali, le quali non aspettano altro che un documento mancante per osteggiare lo sprovveduto viaggiatore.

Ad esempio, se ci si presenta alla frontiera Congolese senza un valido certificato del vaccino contro la febbre gialla, si rischia di essere obbligati a farselo iniettare direttamente nell'aeroporto di Kinshasa. Il che equivale circa a farsi un giro di roulette russa. Un'altra ipotesi, forse piu' frequente, e' che il personale dell'aeroporto proponga di "vaccinare" l'ingenuo viaggiatore in cambio di una lauta mancia. In questi casi, il vaccino consiste in un bel timbro sul passaporto. Non proteggera' dalla malattia, ma apre le porte del paese.

Ogni tanto queste non-regole possono anche tornare utili. Qualche mese fa un mio amico ha programmato un week-end in Sudafrica, rendendosi conto solo alla vigilia del viaggio che il suo vaccino era scaduto. Si sa che in Sudafrica non scherzano: senza certificato non si entra. Allora il mio amico - che ha abitato in Congo abbastanza tempo per sapere come comportarsi - si e’ recato all'ufficio migrazioni, dove un segretario gli ha prontamente «somministrato » non solo con il vaccino contro la febbre gialla, ma anche quello contro la meningite e il tifo. Il tutto al modico prezzo di una coca-cola.

Random weirdness

Inutile ripeterlo, qui non c'e' nulla, ma proprio nulla di noramle. Per una dimostrazione, leggete il messaggio che ho ricevuto stamattina in ufficio proveniente dal nostro responsabile IT (traduizone sotto):

Par ce message, nous vous informons qu’il y aura de courtes perturbations de la connexion internet sur notre réseau dans la période du 19 au 25 mars 2011. Cela est dû aux éclipses solaires qui ont des incidences sur le satellite où nous sommes connectés.

Con questo messaggio, vi informiamo che ci saranno delle brevi perturbazioni della connessione internet sulla nostra rete tra il 19 e il 25 marzo 2011. Cio' e' dovuto alle eclissi solari che influenzano il saltellite a cui siamo connessi.




martedì 8 marzo 2011

Doga

Come se non bastasse, non si puo’ neanche piu’ andare al Doga. Uno de cinque locali da espatriati di Goma, sulla via principale, proprio di fianco all’ufficio. Perfetto per la birretta delle sette.

Basta, finito. Non solo perche’ dopo la MONUSCO l'ha vietato a trutto il personale ONU a causa dell’enorme quantita’ di prostitute che lo frequentano. Ma soprattutto perche’ il padrone ha ben deciso di tappezarlo di bandiere rosse di un partito politico poco identificabile. E per gli umanitari non e' mai una grande idea mostrare di simpatizzare per un partito, specie in periodo di elezioni.

Quello che non sapevo, e che ho scoperto ieri chiacchierando con un'amica in political affairs, e’ che quel partito non e’ altro che CNDP. Che il padrone di Doga e’ un uomo CNDP amico di Bosco. E che tre settimane fa CNDP e Kabila hanno stipulato un accordo nuovo di zecca. Grazie al quale le recenti minacce di Kabila di spostare i contingenti di ex-CNDP in altre zone del Congo sono svanite nel nulla. CNDP rimarra’ stabile in Masisi, a fare i suoi interessi come sempre fatto.

Secondo la mia amica, il motivo di questo nuovo avvicinamento e’ che, in periodo di elezioni, Kabila deve evitare a tutti i costi che tutta l’opposizione faccia fronte unico contro di lui. Le elezioni saranno a turno unico, chi prende la maggiornaza vince tutto. E cosi’, quando i suoi avversari principali hanno cominciato a mostrarsi troppo collaborativi, lui ha ben pensato di assicurarsi la fedelta’ di CNDP con un nuovo accordo.

Mentre la ascoltavo, mi e’ venuto in mente che il Doga ha appena aperto un locale anche a Kinshasa. Stesso nome, stesso brand. Sara’ una coincidenza, o forse no.

domenica 6 marzo 2011

Shot stories

Queste sono tutte storie vere raccontatemi da amici e colleghi. Sono tutte avvenute negli ultimi dieci giorni tra Gyseni, Bukavu e Kinshasa.

J : « Dicono che il Rwanda sia piu’ moderno e sviluppato del Congo, e invece non e’ vero. E’ terribile. Settimana scorsa qualcuno e’ entrato di notte nel nostro appartamento di Gyseni. Non hanno rubato nulla, ma hanno frugato dappertutto. Aperto cassetti, scompigliato vestiti, rotto giocattoli. E poi se ne sono andati. Strano, vero ? L’unica spiegazione che ci siamo dati e’ che fossero delle guardie che cercavano armi. Il Presidente Kagame era alloggiato nei paraggi, forse aveva paura di un attentato.»

C : « No, non voglio andare alla festa alla base uruguayana fuori Bukavu. Sara’ pure bella, ma dopo quello che e’ successo lo scorso fine settimana non me la sento proprio. Lo sai, vero ? Hanno sparato a una macchina UN sulla strada per la base. C’erano dentro dei miei amici, tre militari e una civile. Non credo fosse un attacco politico, sara’ stato il solito soldato ubriaco. Ma la pallottola ha colpito la macchina in pieno.»

C : « Si’ che c’ero. D’altra parte, dove si poteva andare il venerdi’ sera se non al Chez Victoria ? Era il locale piu’ carino di Bukavu, prima che chiudesse. E’ stato piuttosto brutto. Quando sono cominciati gli spari un mio amico mi ha buttata a terra. Tutti giu!, si gridava. E cosi’ mi sono trovata sotto a un tavolo mentre le due fazioni si sparavano a vicenda, tra il bancone e la pista da ballo. Non mi era mai successo di trovarmi in mezzo a una sparatoria. Stranamente, non sono stata colta dal panico. Sono rimasta semplicemente accucciata sul pavimento finche’ non i colpi non sono cessati. Poi piano piano siamo tutti usciti per tornarcene a casa. Paradossalmente, e’ stata quella la parte piu’ spaventosa della serata. Arrivare la macchina senza sapere se ci fosse ancora gente armata in strada ; con la paura che la sparatoria potesse riprendere da un momento all’altro. »

J : « Al Chez Victoria, venerdi’ scorso ? No, non c’ero. Ma so cosa e’ successo perche’ il proprietario e’ un mio amico. Suo cugino e’ uno stupido teppistello diciannovenne. Un tipico mulatto ricco e arrogante. Ha cominciato una rissa, e ha chiamato amici della polizia a difenderlo. Il suo avversario aveva amici nell’esercito, e li ha chiamati a sua volta. Hanno cominciato subito a sparare, e tutti i clienti si sono trovati sul pavimento. »

A : « Stavo andando in piscina al Grand Hotel, come tutte le domeniche a Kinshasa. Ricordi? Avevo invitato anche te settimana scorsa, quando eri in citta’. Camminavo fischiettando con l’asciugamano sulla spalla. Poi ho incontrato per strada un’amico svedese, che mi ha detto Non ci andare: stanno sparando. Non ho capito niente ma me sono tornato a casa di corsa. E dopo un’ora, il paese non parlava d’altro. Un attentato al presidente Kabila. Una sessantina di uomini armati di mitra e machete hanno attaccato il Grand Hotel, dove stava di passaggio. Qualcuno ha parlato di colpo di stato, qualcuno di messinscena imbastita dal governo. Sono morte dieci persone. E io ci stavo andando in piscina. »

martedì 1 marzo 2011

Naufragio

Eravamo in terrazza, M, A e io, a berci una birra dopo il lavoro. Parlavamo di film, pensa te. Di cinema europeo. Le grida sono cominciate all'improvviso, emanate dall'oscurita' del lago. Non ci abbiamo fatto caso, inizialmente. Potevano essere bambini che giocavano in acqua, o pescatori che litigavano. Poi pero' sono continuate, sempre piu' forti. Grida strane. Grida strazianti, disperate e gutturali. Ci alziamo, scrutiamo nel buio. Non si vede nulla, il lago e' tutto nero. Ma la voce arriva, penetrante, agonizzante. Finalmente il pensiero prende forma. Oddio c'e' qualcuno che affoga.

Corriamo dalle guardie, accendete tutte le luci. Andiamo vicino all'acqua, cerchiamo di capire. Che fare, che fare, che fare? Sono io la padrona di casa, sono io che dovrei reagire, trovare una torcia, trovare qualcosa. Ma sono paralizzata, non riesco a muovermi, non so da che parte voltarmi. M grida - prendiamo il kayak. Io non capisco ma corro, corriamo tutti, loro al kayak, io in soggiorno. Per cercare le chiavi che aprono il cancello di filo spinato che da' accesso al lago. Ma le chiavi non ci sono, nulla e' mai al suo posto quando lo si cerca, e qualcuno sta morendo a pochi metri da me e non so che cosa fare. M e A non aspettano, buttano il kayak nel lago e A supera il filo spinato rischiando di lacerarsi. Quando arrivo lui e' gia' in acqua, rema per andarlo a prendere.

Nel frattempo le guardie si avvicinano, parlano fitto in swaihili. Portano un uomo, accompagnato da un cameriere dell'hotel a fianco. Un uomo vestito di stracci, un altro naufrago che e' riuscito a raggiungere la riva e entrare nell'albergo e ora e' venuto da noi per recuperare il suo amico. A e' al largo, si avvicina alle grida. Io ho paura per lui e per il naufrago e mi sento impotente e confusa. Lo raggiunge, finalmente, lui si aggrappa. A urla, prendete una coperta. Certo, una coperta, come ho fatto a non pensarci. Io e M scattiamo, ansiose di fare, e prendiamo qualcosa per scaldarlo.

Proprio in quel momento H arriva dal suo viaggio. Stamattina si e' svegliata nella pacifica Lamu e non ha neanche tempo di uscire dalla macchina per ripiombare nell'orrore frenetico di Goma. Anche B esce dalla sua stanza, svegliato dal rumore. Vede la barca avvicinarsi, recupera le chiavi del cancello, lo apre. La barca approda, finalmente il naufrago sale.

Si capisce subito che c'e' qualcosa di strano. Le guardie ci dicono di stare lontani - e' completamente nudo. Non si sa perche', non ha addosso nemmeno uno straccio. E trema. Sembra che stia per morire assiderato, o di paura. Lo coprono, lo fanno sedere, si siede anche il suo amico. Sono esausti, traumatizzati, non parlano una parola di francese. Le guardie li interrogano. Siamo pescatori, bisbigliano, siamo stati attaccati dai pirati. Uno di loro ha un taglio sulla testa, puo' essere stato un machete. A gli sta di fianco, cerca di scaldarlo sfregandogli la schiena. Sembra essere l'unico in grado di fare qualcosa in quella situazione assurda e terribile. L'unico che agisce, reagisce, interagisce. Noi guardiamo.

E' difficile trovare un senso in quelle emozioni contraddittorie. Vuoi salvare e hai paura di salvare. C'e' un uomo che sta per morire ma che potrebbe essere anche un bandito. Si impara ad aver paura di tutti, qui, anche delle vittime. L'importante e' proteggere se' stessi.

A dice di preparare del the caldo. Ancora una volta, mi domando come possa non essermi venuto in mente. Mi chiedo perche' ci abbia pensato lui e non io. Mi sento inutile, maldestra. Penso che se fosse stato per me sarebbe morto. Penso che due naufraghi nudi stavano per morire a trenta metri da dove io bevevo una birra parlando di cinema europeo. Penso ai miei amici che l'anno scorso hanno trovato un cadavere nel lago. I naufraghi dicono che c'era un terzo compagno, che e' affogato. B decide che domani non mangeremo vicino al lago, il morto potrebbe emergere. Penso che nel the ci vuole tanto zucchero, almeno a questo ci arrivo da sola. Penso che il mio cervello ricomincia piano piano a funzionare.

B ha gia' chiamato la macchina. Non possiamo mandarli all'ospedale con i nostri veicoli, non sappiamo chi siano questi tizi e la loro storia puzza di bruciato. Non possiamo prendere parti in risse locali. B e' il capo anche perche' pensa a queste cose nel momento del pericolo. Protegge la sua squadra.

La macchina finalmente arriva, i due vengono caricati sul sedile di dietro. Noi restiamo in casa, storditi, svuotati. M e A hanno ancora l'adrenalina a mille. Io mi sento come se riemergessi da un sogno. Sento gratitudine, sento ammirazione. Sento colpa, sento vergogna. Sento paura. Sento fame. Anche gli altri sentono fame. Fame fame fame. Siamo andati in cucina e abbiamo addentato quello che c'era sulla tavola. 

lunedì 28 febbraio 2011

Distributore di benzina

Sulla strada per Rutshuru la benzina si compra in bottiglia. A dei banchetti di legno fatti cosi'. Con o senza capretta. 

venerdì 25 febbraio 2011

Riunione

Non so di cosa parlino i miei amici di Milano durante le loro riunioni di lavoro. Ma giusto per fare un esempio, oggi noi abbiamo parlato di questo.

D’ora in poi le macchine che vanno sul terreno si dovranno muovere solo in convoglio. Prima adottavamo questa misura solo nei tratti di strada piu’ rischiosi. Ora e' stato deciso che si dovranno aumentare le precauzioni. Muoversi in due ha soprattutto un effetto deterrente. Un bandito da solo normalmente non se la sente di fermare due macchine e dover gestire 8-9 ostaggi al tempo stesso.

D’ora in poi ci saranno radio-check regolari per tutti coloro che sono provvisti di radio. Il radio-check e’ un controllo quotidiano, sempre alla stessa ora. Ogni espatriato avra’ una radio (quindi anche io!).

D’ora in poi non si prenderanno piu’ autisti in affitto. Gli autisti saranno solo membri del nostro staff. Anche perche’ se un autista temporaneo si trovasse per caso senza lavoro e si unisse a un gruppo armato, saprebbe tutte le nostre parole codice per definire luoghi e persone. Gli basterebbe sintonizzarsi sulla buona frequenza per programmare attacchi contro i nostri veicoli.

Traffic

“Devo andare un pezzo contromano, altrimenti ci tocca fare il giro della citta’”, dice l’autista nel suo francese zoppicante. Io annuisco distrattamente. Succede spesso che si debbano fare picole infrazioni, da queste parti, per scampare al traffico strangolatore di Kinshasa. E certo non immagino che il mio vago assenso possa venir interpretato come licenza di uccidere. In un istante surreale, un poliziotto si materializza davanti alla macchina. Batte violentemente le mani sul cofano gridando "NO" con occhi sgranati. Prima che io possa decifrare l’apparizione l’autista sterza di colpo, schiacchiandomi contro il finestrino. E in un attimo siamo lontani, con il pugno dell’accelerazione centrato dritto nello stomaco.

“Tu sei un pazzo!”, esplodo io non appena riesco ad emettere suono. « Ma ti rendi conto di quello che hai appena fatto ? » Non so neanche io se mi sto riferendo al fatto che ha quasi ucciso una persona, che sta scappando dalla polizia, o che sta guidando a tutta birra in una strada contromano. “Non ti preoccupare, e’ a piedi, non ci puo’ piu’ beccare”, risponde lui come se niente fosse. Allucinata, guardo di fronte a me. Sono su una delle arterie principali della citta’, lunga almeno cinque chilometri. A senso unico e senza deviazioni. Non c’e’ altra opzione che percorrerla tutta in senso inverso.

Arranchiamo al lato della strada con una ruota sull’asfalto e l’altra sul terriccio coperto di rifiuti che sostitisce il concetto di marciapiede. Le altre macchine vengono verso di noi, schivandoci una ad una. Strategicamente decido di rimandare la sfuriata a piu’ tardi : meglio canalizzare tutta la mia energia in preghiere per restare in vita. Dopo poco il traffico si infittisce, trasformando il pericolo di essere investititi in pericolo di essere picchiati da qualche automobilista inferocito. Grida e insulti piovono sulla nostra machina da ogni dove. Risalire la corrente e’ sempre piu’ faticoso. Io me ne sto chiusa nel mio silenzio teso, pensando solo che grazie al cielo si tratta di una macchina in affitto, senza il simbolo della mia organizzazione appicciato al cofano. In un paese in cui l’immagine e’ direttamente collegata all’incolumita’, non si vuole infangare il nome della ONG per cui si lavora.

Dopo una ventina di dolorosi minuti riusciamo finalmente a uscire da quell’inferno, immettendoci sull’amato, ariosissimo Boulevard. Tiro un respiro di sollievo all’idea di essere di nuovo nella legalita’. E proprio mentre faccio per strangolare l’autista, lui con cortesia impecabile si arresta di fronte alle strisce pedonali per lasciare che una signora attraversi la strada.

domenica 20 febbraio 2011

Carabinieri congolesi!

La regola di vita del poliziotto e' una e ben chiara. Chiedere soldi, sempre e comunque. O almeno provarci, dato che la divisa dovrebbe offrire qualche sorta di magico potere convincente. La regola e' applicata diligentemente, ciecamente. Il poliziotto ti ferma, trova qualcosa che non va, chiede soldi.
A volte pero' le cose prendono una piega inaspettata. L'altro giorno un mio amico congolese e' stato fermato in macchina dalla polizia di Kinshasa. Era appena uscito da un bar. Il poliziotto ha visto che aveva bevuto e ha colto l'occasione al volo. "Monsieur, bisogna fare il controllo dell'alcool". "Va bene", risponde il mio amico con aria sommessa. "Per farlo pero' devi pagare cinquecento franchi", dice il poliziotto con il solito sogghigno. Il mio amico e' confuso. "Non ho soldi...", mormora, non credendo alle proprie orecchie. "Davvero?" "Davvero". I due si guardano, c'e' un secondo di silenzio. A quel punto, anche il poliziotto pare un po' perso nel ragionamento. C'e' qualcosa che non va in questa conversazione. Ma oramai e' troppo tardi. "In tal caso... vai pure", gli dice mordendosi le labbra. E il mio amico si volatilizza all'istante, senza lasciargli il tempo di raccapezzarsi.

mercoledì 16 febbraio 2011

Cinema Majestic

In tutto il Congo non esiste un singolo cinema. In un paese grande quanto l'Europa occidentale, nella terza capitale piu' popolosa d'Africa, non c'e' uno straccio di sala in cui godersi la proiezione di un film. A pensarci bene, la cosa non sorprende. Quale compagnia cinematografica si darebbe la pena di aprire una sala in un paese senza legge? Quale produttore invierebbe le pellicole fino all'infernale Kinshasa, dove si volatilizzerebbero appena scaricate dall'aereo?  Eppure, visto che in Congo tutto e' possibile, io al cinema ci sono andata.

Ora, si tratta di rivedere un po' le definizioni. E' una sala, questo si'. Al secondo piano di un edificio senza insegne, con gradini scalcinati e topolini scorrazzanti. Dopo una teoria di porte che si aprono su stanze vuote e polverose, finche' non si azzecca per caso quella giusta. Un'anticamera tappezata di locandine, un mini-bar stipato di birre congolesi. Perfino una macchinetta per fare i popcorn nell'angolo. Dieci dollari all'ingresso ed eccoci dentro, nella sala fitta di poltrone allineate. Poltrone congolesi, legnose e scomode, evidentemente comprate in un mercatino di mobili all'aperto.

Un proiettore, un fascio di luce, una pila di CD pirata di film scaricati da e-mule. Una gigante schermata Windows Media Player luccica sulla parete di fondo. Un gruppuscolo di espatriati svincola dentro con aria da clandestini: hanno tutti letto il programma sul sito internet del proprietario. Con qulache minuto di fisiologico ritardo, le luci si spengono. Un ragazzo indiano regola le casse gracchianti sul giusto volume. Il cursore schiaccia PLAY, il film si spalma a tutto schermo. La storia comincia, benvenuti al Majestic.

sabato 12 febbraio 2011

L'esercito

In Congo e' illegale fotografare i militari. Questa e' l'unica foto che sono riuscita a fare, di nascosto, da dentro la macchina. I soldati sono in giro ovunque, tutti con quest'aria un po' trasandata e il fucile a penzoloni. Chiacchierano con la gente al bordo della strada, passeggiano sgranocchiando un frutto, se ne stanno stipati in cima ai camion con cento altri passeggeri, come se niente fosse.

Tutti sanno che i militari dell'esercito regolare (FARDC) sono praticamente fuori controllo. Sono tanti, male equipaggiati e senza strutture di comando chiare. E infatti saccheggiano, rubano e stuprano a destra e a manca nella totale impunità. Un tempo bisognava almeno seguire un addestramento per diventare un soldato. Oggi al primo ragazzino che vuole far parte dell'esercito bastano un paio di settimane per ricevere un fucile e un uniforme.

Senza contare che nell'FARDC entrano cani e porci. Ogni volta che lo Stato raggiunge un accordo con un gruppo armato, i ribelli vengono assorbiti nelle strutture dell'esercito, da un giorno all'altro. Capirai che affidabilità. E capirai che l'integrazione, anche. I gruppi ribelli hanno i loro gradi di fantasia, e vogliono essere integrati secondo la loro logica. "Io sono Cobra Tango e sono un colonnello". E guai a dirgli di no. Se non lo riconosci come tale, questo torna a darsi alla macchia. Ovviamente, tutti i soldati semplici sono magicamente scomparsi.

Esiste pero' anche un altro gruppo di soldati, scelti, ben pagati e soprattutto fedelissimi al presidente. Sono la guardia presidenziale, distinguibile grazie al baschetto rosso dell'uniforme. Sono loro che controllano gli snodi strategici. Frontiere, aeroporti, porti. Sono loro che - guarda caso - vengono piazzati proprio di fianco alle miniere. La guardia presidenziale e' un esercito serio, addestrato. Che si inquadra in ranghi sensati, mica come gli altri. Nessuno ha mai visto in giro una carica piu' alta di un maggiore.

Tra l'altro, questa controversia sui gradi è riemersa in modo alquanto sfizioso quando c'e' stata una riforma delle uniformi. Dai tempi di Kabila padre (che ha spodestato Mobutu con l'appoggio dei rwandesi), le divise dell'esercito congolese erano tinta unita verdi. Curiosamente identiche a quelle rwandesi. All'improvviso, lo scorso giugno e' stato deciso di differenziarle. Dettaglio interessantissimo, a parer mio, e pieno di implicazioni geopolitiche di cui ancora mi sfugge il significato.

In ogni caso, una nuova divisa e' stata inviata a ogni soldato, questa volta con numero di matricola e gradi come dio comanda. Quando l'hanno vista, i soldati ex-CNDP  sono inorriditi. Hanno voluto mantenere le uniformi vecchie con i gradi che piacevano a loro. A quel punto era diventato un gioco da ragazzi capire chi era fedele al governo e chi no, bastava guardare la mise. Ma per evitare di giocare col fuoco, il governo ha deciso di dargliela vinta. Gli hanno mandato nuove uniformi con i gradi che volevano loro. "Colonnelli, maggiori, generali. Tutto quello che volete, basta che vi togliate quella divisa da rwandesi".

Jibu


Questo piccolo si chiama Jibu. "Risposta", in Swahili.

E' nato da due giorni in una delle piccole cliniche rurali che sosteniamo con il nostro programma medico. Si chiama così perché è nato in risposta alle preghiere di sua madre, che ha atteso un bambino per ben sei anni. In Congo, se una donna non mette al mondo un figlio durante il primo anno di matrimonio rischia di essere ripudiata e messa a margine della società. In un mondo in cui il numero dei figli riflette la potenza di un uomo, una donna sterile è peggio di una malattia. Lei però è stata fortunata. Il marito l'ha tenuta con sé, risparmiandole il disonore. Probabilmente condividendo con lei la vergogna. E infine, dopo sei lunghi anni, é arrivata la risposta.

domenica 6 febbraio 2011

La comida

A Goma non si può andare a cena fuori se si ha fame. Sarebbe una tortura. Con un tempo di attesa medio di un'ora a prescindere ciò che si ordina (che sia un caffè, una pizza o uno stufato), è tassativo muoversi ben prima che si attivino i sensori stomaco-mente. Si agisce di fame preventiva, insomma. "Tra un'ora avrò fame".

Certo, alcuni ristoranti sono meglio di altri. Con una vittoria netta per il localino in stile europeo (mezz'ora di attesa media, ma con una scelta di soli cinque piatti), i pochi altri ristoranti di Goma si piazzano in posizioni discendenti fino ad arrivare all'indiano, con une tempo di servizio medio di un paio d'ore incluso almeno un errore nel servizio. Ma dopo due ore di attesa uno proprio non se la sente di rispedire il piatto indietro, quindi ce lo si fa andar bene.

Col tempo, noi circensi dell'umanitario abbiamo sviluppato varie strategie per gestire questi tempi di attesa faraonici. Il primo, ovviamente, è quello di farci l'abitudine. Si esce con gli amici per fare una lunga chiacchierata, di cui il cibo è solo una tappa passeggera. Si ordina all'inizio della serata, ce ne si dimentica, e prima o poi si verrà colti di sorpresa dall'arrivo della pietanza. Voilà. I più sgamati hanno provato la tecnica della corruzione al cameriere: "Un dollaro in più se me lo porti entro quindici minuti". Oppure, se non si vuole rinunciare alla propria integrità, si sfodera il: "Cosa c'è di già pronto?", sperando di cavarsela alle spalle degli ordini dei clienti precedenti.

Infine c'è chi questa snervante attesa la rifiuta per principio. In tal caso, la soluzione è una sola. Uno va tranquillamente al ristorante e ordina il piatto desiderato. Poi esce. Va a fare la spesa, passa da casa a farsi una doccia, fa una telefonata a casa. E a quel punto, ma solo a quel punto, ritorna al ristorante. Giusto in tempo per essere servito.

martedì 1 febbraio 2011

Me, myself and I

Poco tempo fa sono stata contattta dalla gentile blogger di Anime Nomadi, che raccoglie testimonianze di donne italiane all'estero. A chi interessasse leggere il mio egocentrico, autoreferenziale bla bla bla (e altre interessanti interviste a ragazze in giro per il mondo), basta seguire questo link.

http://animenomadi-storiediespatriate.blogspot.com/2011/02/viviana-dal-congo.html

Grazie ad Anime Nomadi per l'opportunita'!

lunedì 31 gennaio 2011

Neutralita'

Le organizzazioni umanitarie sono neutrali. Fin dalla battaglia di Solferino quando e' stata creata la prima organizzazione umanitaria di tutti i tempi (la Croce Rossa Interazionale), e' stato stabilito che chi offre aiuto umanitario durante i conflitti non deve chiedersi da che parte stiano le vittime. Le vittime sono esseri umani, e questo deve bastare. Il principio di neutralita' - oltre che avere una forte motivazione morale - e' anche una garanzia di sicurezza per gli attori umanitari. Se ci schierassimo da una parte o dall'altra, potremmo diventare bersagli del nemico. O l'accesso ad alcune aree controllate dal nemico potrebbe esserci proibito.

Tutto questo, naturalmente, vale benissimo in teoria. In pratica, qui in Congo la neutralita' e' pressoche' impossibile. Le Nazioni Unite stanno aiutando l'esercito Congolese contro i ribelli (almeno, questa e' la versione semplificata e ufficiale di questo complessissimo conflitto). E noi organizzazioni umanitarie siamo tutte coordinate, supportate e protette dall'ONU. La neutralita' va a farsi friggere.

Ad essere sinceri, alcune ONG si rifiutano di collaborare con l'ONU proprio in nome di questo principio. Come la Croce Rossa, appunto, o Medici Senza Frontiere. Ma questo causa dei problemi per tutti. Non si presentano alle riunioni di coordinazione, non informano nessuno su quello che fanno, sono sempre irraggiungibili. In un posto in cui ci sono decine di operatori umanitari sul terreno, se non si collabora allo sforzo di coordinazione dell'ONU si finisce per pesarsi i piedi a vicenda, il che danneggia prima di tutto i beneficiari.

Un'amica che si occupa di Advocacy sta facendo uno studio su quanto l'entita' politica della MONUSCO danneggi lo sforzo umanitario sul terreno. Le ONG sono viste come parti nel conflitto dalla popolazione locale? Il Coordinatore Umanitario dell'ONU (che e' allo stesso tempo rappresentate del Segretario Generale in Congo)  e' veramente un umanitario o e' piuttosto un politico? Le informazioni sulla sicurezza nel paese sono raccolte da fonti militari, non umanitarie: ma e' vero che quanto e' periocoloso per i soldati ONU e' pericoloso per gli umanitari e viceversa? E' giusta questa sovrapposizione? E che dire del ruolo delle agenzie come UNICEF, FAO e UNHCR? Quanto e' politicizzato il loro lavoro nell'umanitario, dato che sono integrate nella missione militare della MONUSCO?

Tutte queste sono domande interessanti e sensate. E una riflessione in questo senso per ora e' mancata, come si capisce dal fatto che l'interazione fra sfera politica e umanitaria nell'ONU e' lasciata in mano alle personalita' dei singoli individui piu' che da decisioni coerenti. Ad esempio, il mio amico E capo dell'agenzia ONU per l'aiuto umanitario (OCHA) non permetteva al personale MONUSCO di partecipare alle riunioni umanitarie dei comitati inter-agenzie CPIA. Il suo successore invece si'.

Dal mio punto di vista, questa sovrapposizione di proposito umanitario e politico nell'ONU non causa molti problemi sul terreno. Qui non siamo in Afghanistan, in cui bisogna stare attentissimi a come ci si schiera perche' - anche come umanitari - si puo' facilmente passare ad essere percepiti come parte del "nemico occidentale". Questa non e' una guerra fra due parti. E' piuttosto un territorio senza legge, pieno di gruppi armati piu' o meno formali, scorribande, ruberie, corruzione e impunita' assoluta. C'e' poca politica, sul terreno. La gente combatte piu' per il proprio tornaconto privato che per un'idea o un partito. Quindi, per quanto mi riguarda, piu' l'ONU aiuta noi umanitari e meglio e'. Non mi sento messa a rischio da questa collaborazione, ne' mi sembra che gli obiettivi politici della MONUSCO mettano a repentaglio la nostra azione neutrale a favore di tutti i Congolesi.

Ma questo, naturalmente, e' soltanto il mio parere. Parere di chi, pur essendo a Goma da un anno, ancora non ha capito cosa  diavolo stia succedendo tutto intorno a casa sua.

venerdì 28 gennaio 2011

Un personaggio

Il pianeta umanitario non e’ altro che un grande villaggio. Per quanto si cammini in vicoli stretti e oscuri, si finisce sempre per incontrarsi, scontrarsi e reincontrarsi negli snodi principali chiamati Congo, Haiti, Afghanistan, Indonesia e Sudan . Se si e' stati in giro per una decina d’anni, si aggiungono Bosnia, Iraq, Sierra Leone, Rwanda e Somalia. Tutto qui. E visto che il mondo e’ piccolo e la gente mormora, ci si trova a trottare per il globo con una bella reputazione intercontinentale appicciata addosso. Proprio come e’ successo a S - una delle mie persone preferite qui a Goma.

S e’ un afghano. Uno di quei brillanti individui che ha cominciato a lavorare come staff nazionale nel suo paese e che poi e’ riuscito a fare il salto di qualita’, diventare un expat, e farsi inviare altrove. Quando, una sera di quasi un anno fa, H l’ha reincontrato dopo tanto tempo, quasi sveniva per l'eccitazione: « S! Sei tu! Il famoso, famigerato S di Kabul… qui a Goma! » Incuriosita dalla sua reazione, le ho chiesto subito spiegazioni. E quella stessa sera, dondolando sull’amaca in veranda, H mi ha introdotta alla vita personaggio, dipingendomene un quadro incredibile.

S e’ colui che riesce ad introdursi in tutti i traffici piu’ loschi nelle citta’ in cui vive. Colui che a Kabul e’ stato scoperto in una sessione di sesso selvaggio con la moglie del suo capo, a casa del suo capo, sul divano del suo capo. Colui che in Sudan ha organizzato una grande festa piena di alcolici che e’ stata interrotta dalle autorita’ islamiche. Lui e’ stato arrestato e messo sotto processo, e poi grazie ad amici di amici e’ riuscito a fuggire da Kartum, dove e’ ancora ricercato. Colui che qualche mese fa e’ andato in R&R a Parigi per una settimana, ha incontrato la sua ragazza (che al momento lavora in Sudan del Sud), e l’ha sposata. Sposata in vacanza. E durante un’altra vacanza hanno comprato casa.

In Congo, tutti conoscono S. Quando mi trovo a Kinshasa e Bukavo, mi basta dire che abito a Goma perche’ la gente mi chieda: « E S lo conosci ? » Certo che lo conosco, siamo amici. Tra di noi c’e’ una simpatia istintiva incredibile. Ci incontriamo a tutte le feste, visto che siamo entrambi nottambuli. E ogni volta, quando arrivano le due o le tre di notte e lo intravedo nella luce intermittente ballare inebriato nella sua caratteristica posa a pugni chiusi, non posso fare a meno di pensare : « Questa e’ l’immagine-simbolo del divertimento di Goma. Della meravigliosa follia che mi circonda. Sono alla festa giusta ».

sabato 22 gennaio 2011

Prima dell'alba

Dopo un mese di stacco, è arrivato il momento di salire sul mio volo di ritorno. Non lo nascondo, ho un po' paura. Il Congo scotta: bruciarsi è già successo e non c'è nulla di più facile che scottarsi di nuovo. Ho paura della solitudine, il mostro che faccio tanta fatica ad affrontare. Mi chiedo come una persona che ha tanto bisogno di circondarsi di affetto scelga in continuazione una vita di esilio. E vado con una valigia colma di nuovi propositi, sia personali sia professionali, che non sono sicura di riuscire a compiere, ma che allo stesso tempo non posso permettermi di infrangere. Sento la pressione addosso.

Eppure, al tempo stesso ho voglia di tornare. Ho voglia di caldo, di Africa, di sfida. Ho voglia dei miei coinquilini e dei pranzi assieme la domenica. Ho voglia di lavorare e di imparare e di crescere. Di fare. Di intraprendere il prossimo passo, dare una forma più chiara al mio futuro. Questo è solo l'inizio, ora si tratta di definire una linea.

Devo farmi coraggio, prendere un respiro profondo e tornare con un sorriso. Goma mi attende.

venerdì 14 gennaio 2011

Considerazioni affettive

E' trascorsa un'altra settimana lontana dall'Africa.

Durante questo periodo ho fatto molte cose, ma l'unica veramente importante è che sono riuscita ad vedere tutte le persone a cui voglio un bene assoluto. Sono quasi una decina, sparpagliate in vari paesi su due continenti. E le ho incontrate tutte, tra gli abbracci e le lacrime di gioia. Ho trascorso ore addentrandomi in tutti i particolari delle loro preziosissime vite, come loro hanno fatto con me.

E' stato un dolce ritorno alle origini, e anche - in un certo senso - una rivelazione. Mi ha fatto riscoprire cose che già sapevo. Le lezioni più essenziali sono sempre quelle che non smettiamo mai di apprendere.

Mi ha fatto capire che amo e sono amata, anche se scelgo una vita di lontananza dai miei cari. Che quando mi sento sola io in realtà non sono sola. Quando mi sono sentita sola io in realtà non ero sola. E quando mi sentirò sola io in realtà non sarò sola. Non posso mai più dimenticarmene. Non ho bisogno di elemosinare affetto. Nè di conquistarlo. Nè di concedere alcunchè per averne.

Perchè ne ho, ne ho da vendere, ne ho di già a bizzeffe. E tutto il resto è solo un gioco.

sabato 8 gennaio 2011

La torre d'avorio

Un'overdose di cultura, ecco cosa è stata. Milano, Lugano, Londra. Musica, film, mostre. Cinema d'essai, grandi produzioni, il teatro nel West End. Giornali e caffè, riviste di politica internazionale. Tiziano e Gauguin, Dalì e il Partenone, James Callum e Ciurlionis. I sushi bar, la Milano da bere, i pranzi con piatti quadrati all'ultimo piano dei musei, con vista sulla città azzurra d'inverno. E' stato un turbine meraviglioso dal quale sono uscita dissetata, dopo un anno di terra bruciata culturale. Dissetata, ma anche perplessa.
Per la prima volta, mi sono trovata ad essere insofferente di fronte a certe forme di cultura elitaria e narcisistica. Mentre in passato mi crogiolavo nell'esclusività di un certo intellettualismo artistico - e ambivo ad avervi accesso quando la mancanza di riferimenti non me lo permetteva - oggi mi viene semplicemente a noia. Un film francese traboccante di dialoghi eruditi, con incorporata una speculazione contorta sul concetto di copia artistica. O una session di musica sperimentale fatta di vibrazioni gracchianti e stridoli squittii, osannata da un  piccolo pubblico auto-compiaciutamente avant-garde. Un tempo mi avrebbero incuriosito, stuzzicato. Oggi mi irritano.
Non c'è nulla di intelligente, in quest'arte ossessionata da sé stessa. Un'arte che si guarda l'ombelico. Per la prima volta mi permetto di essere drastica su questo punto. La torre d'avorio non è la risposta, e chi lo crede sbaglia. La cultura non serve per riflettere altra cultura, serve per riflettere la realtà. La realtà esiste ed è infinita e implora di essere notata. Il mondo è grande, colorato, pieno di abissi e profondità e dilemmi da scandagliare; di commozione e fragilità e bellezza da celebrare; di energia, di rabbia, di gloria. 
Dopo un anno di Goma ho la forza di dirmi, con una sicurezza assolutamente senza precedenti, che l'arte per l'arte non è solo un gioco: è un insulto. E una sacrosanta perdita di tempo.

Conferma

Adoro l'Europa, per quanto ne fugga. Qui sono felice. Me ne sono accorta - di nuovo - in questi ultimi quindici giorni.
Questa felicità è quanto di più rassicurante possa accadere ad una viaggiatrice. E' una conferma preziosa che no, non sto fuggendo da nulla.