“Devo andare un pezzo contromano, altrimenti ci tocca fare il giro della citta’”, dice l’autista nel suo francese zoppicante. Io annuisco distrattamente. Succede spesso che si debbano fare picole infrazioni, da queste parti, per scampare al traffico strangolatore di Kinshasa. E certo non immagino che il mio vago assenso possa venir interpretato come licenza di uccidere. In un istante surreale, un poliziotto si materializza davanti alla macchina. Batte violentemente le mani sul cofano gridando "NO" con occhi sgranati. Prima che io possa decifrare l’apparizione l’autista sterza di colpo, schiacchiandomi contro il finestrino. E in un attimo siamo lontani, con il pugno dell’accelerazione centrato dritto nello stomaco.
“Tu sei un pazzo!”, esplodo io non appena riesco ad emettere suono. « Ma ti rendi conto di quello che hai appena fatto ? » Non so neanche io se mi sto riferendo al fatto che ha quasi ucciso una persona, che sta scappando dalla polizia, o che sta guidando a tutta birra in una strada contromano. “Non ti preoccupare, e’ a piedi, non ci puo’ piu’ beccare”, risponde lui come se niente fosse. Allucinata, guardo di fronte a me. Sono su una delle arterie principali della citta’, lunga almeno cinque chilometri. A senso unico e senza deviazioni. Non c’e’ altra opzione che percorrerla tutta in senso inverso.
Arranchiamo al lato della strada con una ruota sull’asfalto e l’altra sul terriccio coperto di rifiuti che sostitisce il concetto di marciapiede. Le altre macchine vengono verso di noi, schivandoci una ad una. Strategicamente decido di rimandare la sfuriata a piu’ tardi : meglio canalizzare tutta la mia energia in preghiere per restare in vita. Dopo poco il traffico si infittisce, trasformando il pericolo di essere investititi in pericolo di essere picchiati da qualche automobilista inferocito. Grida e insulti piovono sulla nostra machina da ogni dove. Risalire la corrente e’ sempre piu’ faticoso. Io me ne sto chiusa nel mio silenzio teso, pensando solo che grazie al cielo si tratta di una macchina in affitto, senza il simbolo della mia organizzazione appicciato al cofano. In un paese in cui l’immagine e’ direttamente collegata all’incolumita’, non si vuole infangare il nome della ONG per cui si lavora.
Dopo una ventina di dolorosi minuti riusciamo finalmente a uscire da quell’inferno, immettendoci sull’amato, ariosissimo Boulevard. Tiro un respiro di sollievo all’idea di essere di nuovo nella legalita’. E proprio mentre faccio per strangolare l’autista, lui con cortesia impecabile si arresta di fronte alle strisce pedonali per lasciare che una signora attraversi la strada.
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