sabato 8 gennaio 2011

La torre d'avorio

Un'overdose di cultura, ecco cosa è stata. Milano, Lugano, Londra. Musica, film, mostre. Cinema d'essai, grandi produzioni, il teatro nel West End. Giornali e caffè, riviste di politica internazionale. Tiziano e Gauguin, Dalì e il Partenone, James Callum e Ciurlionis. I sushi bar, la Milano da bere, i pranzi con piatti quadrati all'ultimo piano dei musei, con vista sulla città azzurra d'inverno. E' stato un turbine meraviglioso dal quale sono uscita dissetata, dopo un anno di terra bruciata culturale. Dissetata, ma anche perplessa.
Per la prima volta, mi sono trovata ad essere insofferente di fronte a certe forme di cultura elitaria e narcisistica. Mentre in passato mi crogiolavo nell'esclusività di un certo intellettualismo artistico - e ambivo ad avervi accesso quando la mancanza di riferimenti non me lo permetteva - oggi mi viene semplicemente a noia. Un film francese traboccante di dialoghi eruditi, con incorporata una speculazione contorta sul concetto di copia artistica. O una session di musica sperimentale fatta di vibrazioni gracchianti e stridoli squittii, osannata da un  piccolo pubblico auto-compiaciutamente avant-garde. Un tempo mi avrebbero incuriosito, stuzzicato. Oggi mi irritano.
Non c'è nulla di intelligente, in quest'arte ossessionata da sé stessa. Un'arte che si guarda l'ombelico. Per la prima volta mi permetto di essere drastica su questo punto. La torre d'avorio non è la risposta, e chi lo crede sbaglia. La cultura non serve per riflettere altra cultura, serve per riflettere la realtà. La realtà esiste ed è infinita e implora di essere notata. Il mondo è grande, colorato, pieno di abissi e profondità e dilemmi da scandagliare; di commozione e fragilità e bellezza da celebrare; di energia, di rabbia, di gloria. 
Dopo un anno di Goma ho la forza di dirmi, con una sicurezza assolutamente senza precedenti, che l'arte per l'arte non è solo un gioco: è un insulto. E una sacrosanta perdita di tempo.

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