venerdì 28 maggio 2010

Una settimana ai tropici

Prima o poi capita a tutti di prendersi una malattia tropicale. Eccoci, è arrivato il mio momento.

Tutto è cominciato, come da manuale, con una febbre altissima e improvvisa. Quando lunedì sera la temperatura è salita a 39.6, B mi ha scarrozzata al migliore ospedale locale per una consultazione d’urgenza. Sono stata scrutinata da una maman congolese in camice bianco, flemmatica e bonaria, che giusto per non rischiare mi ha diagnosticato la malaria. Era quello che mi aspettavo, e la cosa non mi ha particolarmente inquietato. Un giro di malaria ai tropici bisogna metterlo in conto, e se presa in tempo passa in massimo 3 giorni.

Certo che per te è facile stare tranquilla – diceva la mia coscienza - sei a Goma e hai 80 dollari da spendere in cure mediche. Se fossi una Congolese povera o campagnola potresti pure morire.

Prendo il tutto con fare procedurale, come si trattasse di un iter burocratico. Oggi comincio la cura, domani faccio l’analisi del sangue. Visto che siamo in Congo, i risultati arrivano dopo 24 ore al posto che due. Pazienza, che ci vuoi fare? Se non fosse che mercoledì mattina scopro che in fin dei conti non ho affatto la malaria, ma la febbre tifoide. Ergo, sono stata per due giorni in cura per la malattia sbagliata! La cosa dapprima mi irrita, poi decido di prenderla con filosofia. E va bene, rifacciamo tutto da capo. Ovviamente non è che fossi un fiore, avevo una febbre da cavallo che tenevo bassa con chili di paracetamolo, nausea e un mal di testa lancinante. Mi faccio prescrivere gli antibiotici e dopo un’ora di fila riesco a comprarli all’ospedale locale. Vado a casa, mi faccio le mie dosi. E quella sera – voilà - comincio a stare malissimo. Non il male solito della febbre, molto peggio. Il mio corpo rigetta l’antibiotico. Chiamo il medico dell’assicurazione a Londra, che mi dice che è fondamentale che io prenda tutte le medicine. Se il mio corpo le rigetta oralmente, bisogna prenderle in vena. E in Congo non si prende niente in vena, quindi se continuo così mi dovranno trasferire altrove.

Come si farà a trasferirmi altrove, se il mio passaporto è a Kinshasa per fare il visto di residenza? E perché diamine ci mettono più di un mese a Kinshasa a fare un benedetto visto?!?

A quel punto perdo un po’ del mio sangue freddo. Chiamo subito B, gli spiego la situazione. Lui si precipita in camera mia, dove mi trova KO. Comincia il giro di telefonate a Kinshasa per chiedere il da farsi. Viene fuori che la soluzione ideale sarebbe quella di farmi intrufolare nell’ospedale militare della MONUC, anche se tutti sanno che le ONG non vi hanno accesso. Come ovunque nel mondo, quando le cose non funzionano si può solo contare sui contatti personali. B chiama il comune amico E, R chiama Dr. N. Il piano funziona, in via eccezionale vengo fatta entrare per una visita al volo. Varcato il cancello, i medici mi tempestano di domande. Io rispondo, raccontando tutti i passaggi della mia eccitante storia. Sto malissimo e spero che mi ricoverino, mentre loro dibattono se tenermi o no. “Non si potrebbe, è un ospedale solo per personale ONU”. “Sì, ma è un’emergenza”. “Sì, ma la tifoide ce l’hanno tutti, che emergenza è?”. “Sì, ma lei sta supermale poveraccia”. “E vada, facciamola restare”.

Errata corrige. Non sono solo le congolesi povere e campagnole a essere spacciate. Pure quelle urbane e benestanti sono messe male. Se dovessi contare sull’ospedale locale sarei fritta. Menomale che sono straniera.

Vengo depositata in una sala piena di militari feriti, ma con un piccolo paravento per farmi da schermo. I dottori confabulano varie ipotesi rispetto a cosa io possa avere e mi informano che del test fatto all’ospedale locale non ci si può fidare, lo dobbiamo ripetere. Per le ore seguenti vengo assistita da un’infermiera-angelo che mi somministra mille medicine, mezza pastiglia alla volta, mentre la flebo lentamente mi restituisce al mondo.

Giovedì mattina mi sveglio e mi sento un’altra, sto infinitamente meglio. E alla luce del giorno mi rendo finalmente conto della stranezza del posto in cui mi trovo. L’ospedale è gestito dal contingente indiano della MONUC: guardie, infermieri e dottori vengono dal Subcontinente. Alla televisione trasmettono un film di Bollywood e i manifesti alle pareti sono in Hindi. L’infermiera-angelo ha una targhetta sul petto che dice Indian Army. Dottori in tuta mimetica arrivano a prelevarmi il sangue e farmi l’ecografia, per poi confermare che si tratta davvero di tifo. Quando mi dicono che mi vogliono tenere sotto osservazione per altre ventiquattr’ore io m sento sollevata. Finalmente sono in buone mani. Mi fanno mangiare qualcosa, sono a digiuno da ieri mattina. E mentre addento un pezzo di chapati, sento un sussurro dalla sala di fianco: “Psss… There is a lady in the breakfast room!

2 commenti: