L’aspetto più bello del lavoro umanitario è che non è politico. O lo è poco. Non ci si schiera, non si prende la parte di nessuno. Chissenfrega del motivo per cui state litigando, io me ne sto qui a salvare le vite che voi cercate di distruggere.
Il lavoro umanitario è diverso dal lavoro di sviluppo. Lo sviluppo lavora sul lungo termine, propone modelli di crescita, insegna tecniche agricole, imposta sistemi di educazione, cerca di mettere in piedi sistemi sanitari. Il lavoro di sviluppo sogna di trasformare un posto malmesso in un posto dove la gente fa una vita decente. Lo sviluppo è meraviglioso, in questo senso.
Ma lo sviluppo è difficile, è vago, i suoi risultati non sono mai apprezzabili. Ci sono mille fattori che fanno fallire la maggior parte dei tentativi. E poi lo sviluppo propone, insegna, sviluppa, appunto. Passa la conoscenza, trasmette dei modelli. Dei modelli che non si sa mai se funzionano, là dove sono trapiantati. E apre tutta una serie di questioni filosofiche sull’opportunità di questi insegnamenti. Sulla differenza di culture, sul neocolonialismo. E’ tutto complicato, per chi decide di pensare.
Il lavoro umanitario è più semplice. Tu hai fame, io ti dò un panino. Tu scappi dal tuo paese a causa della guerra, io ti metto in un campo profughi dove per lo meno non muori. Ti costruisco delle latrine nelle scuole, ti faccio un pozzo al tuo villaggio. Così non devi farti 3 kilometri al giorno con un secchio sulla testa. Così non ti violentano sulla strada. Ti tappo un bisogno del momento, ti faccio sopravvivere oggi. E' un lavoro umile, senza pretese. Un lavoro trasparente. Ed è la sola cosa che non mi confonde, l’unica cosa che sono sicura che sia giusto fare. L‘unica cosa in cui so di non sbagliare.
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