Quando uno fa questo lavoro, non e’ ci stia a pensare tutto il tempo, a quello che sta facendo. Soprattutto se uno se ne sta prevalentemente seduto alla scrivania, a interagire con donatori che a loro volta se ne stanno seduti alla scrivania. Tu a Goma, loro a Washington. Tu con le zanzare, loro con l'aria condizionata.
Uno mica ci sta a pensare, che le “2,700 survivors of gender based violence” assistite in media ogni anno col nostro programma sono donne in carne ed ossa. Che in genere hanno subito uno stupro.
E poi se pure uno ci pensa, non e' che ci soffre. Non empatizza. Figuriamoci se dovessimo empatizare ogni volta. Mi ricordo quando facevo il mio stage a Ginevra tre anni fa, nell'unita' di violenze sessuali, e mi leggevo i rapporti sullo stupro come arma di guerra in Darfur. Ci stavo cosi' male che mi mettevo a piangere leggendo, di fianco allo scatolotto bianco dell'aria condizionata. Ora no, e' routine. Sono solo numeri, e' il mio lavoro.
Eppure ogni tanto, ma proprio ogni tanto, magari una volta ogni tre o quattro mesi, uno legge una frase formulata in modo un po' diverso. Basta un dettaglio. Magari una frase letta con meno fretta, o una frase trascritta. Una frase a caso fra le mille, che inspiegabilmente colpisce come un pugno in faccia. E uno non ce la fa a continuare. Uno ci prova ad andare avanti a lavorare, c'e' la deadline a fine giornata e poi bisogna uscire a prendere una birra alle sette. Pero' e' impossibile, bisogna fermarsi, minimo trenta secondi di immobilita', di respiro difficoltoso. Di nausea e voglia di vomitare.
Mi e' successo oggi, quando ho letto che il Congo "e' definito il peggiore posto al mondo per essere donna". Una frase stupida da hit parade. Che avevo gia' letto un sacco di volte. Una frase che normalmente mi irrita, perfino. Populista. Sensazionalista. Non tecnica. Definito da chi? In base a che cosa?
Pero' oggi per qualche motivo questa frase mi ha fatto venire in mente una cosa. Una cosa che ho visto domenica, quando andavo a fare un pic-nic sul lago con le mie amiche. Una cosa normalissima. Una donna che camminava accanto a suo marito in una strada di campagna, e che trasportava sulla schiena due casse di birra, piegata in avanti come un mulo.
Una visione quotidiana, assolutamente banale. Le donne portano sempre dei pesi allucinanti, qui. Intere fascine di legno sul gobbo. Forse questa volta l'ho notata perche' io non ho mai provato a trasportare una fascina di legno, ma so quanto pesano due casse di birra. Quando l'ho vista ho pensato che era una cosa terribile, come sempre. Ma non mi sono veramente dispiaciuta per lei. Il mio filtro emotivo e' troppo spesso per tirare in ballo il dispiacere per cosi' poco.
Pero' oggi, quando ho letto quella frasetta retorica, la signora mi e' venuta in mente con una potenza incredibile. Un immagine nitida che reclamava, esigeva la mia attenzione. E mi ha dato pugno in faccia.
Uno mica ci sta a pensare, che le “2,700 survivors of gender based violence” assistite in media ogni anno col nostro programma sono donne in carne ed ossa. Che in genere hanno subito uno stupro.
E poi se pure uno ci pensa, non e' che ci soffre. Non empatizza. Figuriamoci se dovessimo empatizare ogni volta. Mi ricordo quando facevo il mio stage a Ginevra tre anni fa, nell'unita' di violenze sessuali, e mi leggevo i rapporti sullo stupro come arma di guerra in Darfur. Ci stavo cosi' male che mi mettevo a piangere leggendo, di fianco allo scatolotto bianco dell'aria condizionata. Ora no, e' routine. Sono solo numeri, e' il mio lavoro.
Eppure ogni tanto, ma proprio ogni tanto, magari una volta ogni tre o quattro mesi, uno legge una frase formulata in modo un po' diverso. Basta un dettaglio. Magari una frase letta con meno fretta, o una frase trascritta. Una frase a caso fra le mille, che inspiegabilmente colpisce come un pugno in faccia. E uno non ce la fa a continuare. Uno ci prova ad andare avanti a lavorare, c'e' la deadline a fine giornata e poi bisogna uscire a prendere una birra alle sette. Pero' e' impossibile, bisogna fermarsi, minimo trenta secondi di immobilita', di respiro difficoltoso. Di nausea e voglia di vomitare.
Mi e' successo oggi, quando ho letto che il Congo "e' definito il peggiore posto al mondo per essere donna". Una frase stupida da hit parade. Che avevo gia' letto un sacco di volte. Una frase che normalmente mi irrita, perfino. Populista. Sensazionalista. Non tecnica. Definito da chi? In base a che cosa?
Pero' oggi per qualche motivo questa frase mi ha fatto venire in mente una cosa. Una cosa che ho visto domenica, quando andavo a fare un pic-nic sul lago con le mie amiche. Una cosa normalissima. Una donna che camminava accanto a suo marito in una strada di campagna, e che trasportava sulla schiena due casse di birra, piegata in avanti come un mulo.
Una visione quotidiana, assolutamente banale. Le donne portano sempre dei pesi allucinanti, qui. Intere fascine di legno sul gobbo. Forse questa volta l'ho notata perche' io non ho mai provato a trasportare una fascina di legno, ma so quanto pesano due casse di birra. Quando l'ho vista ho pensato che era una cosa terribile, come sempre. Ma non mi sono veramente dispiaciuta per lei. Il mio filtro emotivo e' troppo spesso per tirare in ballo il dispiacere per cosi' poco.
Pero' oggi, quando ho letto quella frasetta retorica, la signora mi e' venuta in mente con una potenza incredibile. Un immagine nitida che reclamava, esigeva la mia attenzione. E mi ha dato pugno in faccia.