Qualche giorno fa, ho trascorso una serata a Kigali. Kigali è bella, ordinata, piena di fiori. Circondata da mille colline divise in appezzamenti di terra regolari, morbide curve verdi chiaro coperte di piantagioni di the. Tutto è pulito, non si vede una carta per terra. Passando in macchina mi ripeto che dietro questa scintillante facciata c’è la dittatura di Kagame. Una dittatura vera. “Sarà, ma se dovessi scegliere tra rinascere nell’anarchia del Congo Orientale o nel Rwanda fascista, sceglierei il Rwanda, senza ombra di dubbio”, dico tra me e me dopo aver intravisto l’ennesima aiuola fiorita.
Esco a cena in compagnia di colleghi di un’altra organizzazione umanitaria. Come si fa spesso in simili circostanze, cerco di informarmi un po’ sul paese che sto attraversando. Com’è questa dittatura? E com’è l’opposizione? Sì, ho sentito dire delle granate, anche quindici giorni fa, qui a Kigali. Ma che ne dice la gente? Che succede ai dissidenti? Ah, dici che dopo il genocidio nessuno ha il coraggio di dire nulla? Che basta che il governo garantisca sicurezza, e sono tutti contenti? Certo, si capisce… Però una qualche opposizione ci sarà, le dittature esistono ovunque, e c’è sempre qualcuno che le sfida… E quando sono queste benedette elezioni?
Percepivo un po’ di tensione, in reazione a queste domande. La percepivo ma non mi importava, perché la curiosità era troppa per smettere di chiedere. Dopo qualche minuto però mi è stata lanciata un’occhiataccia così eloquente che ho dovuto zittirmi. Abbiamo cambiato argomento. Più tardi, in gruppo più ristretto, mi sono vista puntare addosso un dito di ammonimento. Non le puoi fare, domande del genere. Non in pubblico. Qui il governo controlla tutto, tutto. Sanno anche chi sei tu, sanno quando resti, sanno cosa fai. Non si parla di politica, in un regime dittatoriale. Credi che si scherzi, quando si dice che non esiste libertà di parola?
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