Quando un congolese lascia un posto di lavoro, non lo fa discretamente. Qui non è uso mandare un breve messaggio email ai propri colleghi, ringraziando per la bella esperienza e augurando il meglio per il futuro.
Il congolese scrive il suo prolisso addio strappandosi i capelli in un grido di dolore. E lo fa mettendo in copia tutti gli ottocento dipendenti dell’organizzazione, anche quelli che lavorano in altre province, anche quelli che non ha mai conosciuto né conoscerà mai. Non importa il suo grado gerarchico, tutti devono sapere che oggi è l’ultimo giorno di lavoro dell’aiuto-magazziniere di Lubumbashi.
Di protocollo, le mail di fine lavoro contengono i seguenti elementi. Primo, un accorato addio declamatorio. Secondo, un riferimento a Dio onnipotente che benedica il sottoscritto e i destinatari. Terzo – tenetevi forte – un apologia per tutte le volte che si possa aver offeso qualcuno: che lo si perdoni alla luce del fatto che non siamo creature perfette.
A queste solenni email – in media una la settimana – non mancano di aggiungersi le risposte dei commossi colleghi, che naturalmente decidono di condividere il loro trepidante saluto con i famosi ottocento dipendenti di tutte le sedi. Le risposte a loro volta complimentano, benedicono e chiedono venia per eventuali screzi occorsi sul lavoro. E a volte includono anche una scusa per il disturbo a tutti i destinatari, "ma di fronte alla partenza di tale esimio collega proprio non si può tacere".
Quando la catena di messaggi si fa esageratamente ridondante, finalmente interviene il responsabile IT. Che sgrida gli scrivani tacciandoli di abuso comunicativo. Che ricorda che le loro mail vengono lette da centinaia di persone che non li conoscono. E come atto definitivo del suo richiamo all’ordine, lancia la più terribile delle minacce. Al prossimo che manda un messaggio futile, verrà bloccato l’account per quattro ore di fila.
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