L’Africa Orientale mi chiama. La voglio conoscere meglio, le voglio parlare. In due settimane in Kenya mi è sembrato di capire di più di questo continente di quanto non abbia fatto in tre mesi a Goma. In Congo lavoro tanto, e il tempo che non trascorro in ufficio lo passo con altri espatriati come me. Dal punto di vita professionale, è magnifico. E’ un crash course sull’umanitario. Ma l’Africa la tocco poco. Non ci affondo le mani fino al polsi, in questa terra nera di Goma.
In Kenya è stato diverso. Il Kenya è un paese vero. E’ un paese che vive in sé, coi suoi ritmi e i suoi suoni e i suoi colori. Con la sua vita africana scandita, di cui devo imparare il tempo per poterci ballare sopra. In Kenya sono stata una straniera, non una musungu. Straniera, come quando vado in Francia, in Belgio o a Trinidad e Tobago. E sono stata trattata come tale. Con accoglienza, con diffidenza, con scherno, a volte. Ma mai con servilismo, né con risentimento. Nessun complesso di inferiorità/superiorità ha intralciato i miei rapporti umani. Per la prima volta da quando ho messo piede su questo continente, mi sono sentita sollevata da un enorme peso. Non ero una bianca, né un’operatrice umanitaria. Sono stata una semplice donna, persa in un mondo nuovo tutto da esplorare.
Mi manca già, questo dialogo che ho appena cominciato. Lo cerco nei libri, nei film, negli articoli di giornale. Lo cerco nei ricordi degli altri viaggiatori. Sento che l’Africa canta come una sirena, e non so resistere al richiamo. Mi ci voglio tuffare, scendere in profondità, affondarci dentro. E raccogliere le conchiglie sul fondo del suo abisso.
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