mercoledì 29 dicembre 2010

Ragazzini

Questi sguardi attraversano tutte le barriere. Anche quelle più impenetrabili, come il muro bucato di questa scuola di Masisi. Come i migliaia e migliaia di chilometri che ci sono fra me e loro in questo momento.

martedì 28 dicembre 2010

Three rules to survive Congo.

1. Don't let anyone's emergency become your own emergency.
2. Don't worry about problems you don't already have.
3. Never ask why (nor when).

Fonte: Vecchio coordinatore del programma "risposta di urgenza ai movimenti di popolazioni" in Sud Kivu..

lunedì 27 dicembre 2010

Ritorno

In Italia tutti si vestono di scuro. Cappotti neri, grigi, marroni. Tante ombre silenziose che scivolano su strade perfette. C’è asfalto ovunque, liscio e morbido. Ci si cammina velocemente, come piace a me, sentendo l’aria pungente contro, senza dover guardare per terra per paura di slogarsi una caviglia. Il sole sorge tardissimo, e la mattina resta una fase di luce intermedia e tremula che si sviluppa piano fino al mezzogiorno. Così diverso dall’equatore, in cui esistono solo pieno giorno e piena notte - con tramonti e albe per voltare pagina.

Sono entrata in un’edicola, in aeroporto. Dopo un anno senza stampa, era il paese dei balocchi. Ho sorriso fra me e me, sfiorando quelle copertine lucide tutte allineate. Ne leggevo bramosa i titoli, echi di lingue di tutto il mondo che descrivono il mondo stesso a noi lettori sparpagliati per aeroporti. Cercavo istintivamente notizie sul Congo, sull’Africa. Che succede nel mio, di mondo? Ma non ho trovato nulla. Un’assenza insopportabile, che mi vergogno di non aver mai notato prima. Fuori dall’Africa, l’Africa non esiste.

venerdì 24 dicembre 2010

Buon Natale, maman.

E’ Natale e voglio raccontare una storia. Per una volta, una storia Congolese a lieto fine.

Si tratta di un’intervista che ho raccolto settimana scorsa, quando nauseata dalla vita di Goma ho deciso di ritirarmi sul terreno in Sud Kivu alla ricerca del senso di ciò che sto facendo. La squadra di violenze sessuali ha trovato alcune beneficiarie disponibili raccontare la loro esperienza, e mi ha procurato un interprete francese-swaihili. Le regole le conoscevo, nemmeno bisogno di ripeterle. Niente foto, niente nomi, solo testimonianze anonime.

V: Jambo maman.
M: Jambo sana, dada.
V: Ha voglia di raccontarmi come è entrata a far parte di questa associazione di donne del villaggio?
M: E’ successo un giorno di due anni fa. Una mattina ero andata nei campi per la raccolta del mais. Allora avevo un piccolo campo in una zona poco fertile di queste colline. Non era ideale, ma era quanto mi potevo permettere, e lo coltivavo assiduamente. Quel giorno di due anni fa, dicevo, io e le mie compagne siamo state assalite da un gruppo di militari Interhamwe che si aggirava nella zona.
V: E che cosa è successo?
M: E’ stato terribile. Ci hanno rubato tutto il raccolto. E hanno usato violenza contro di noi.
V: In quante eravate, maman?
M: Eravamo una ventina, ma loro erano armati e molto più numerosi di noi. Dopo il fatto, noi siamo tornate al villaggio, e abbiamo trovato ad accoglierci questo gruppo di donne informate dell’accaduto, pronte ad aiutarci.
V: E che cosa hanno fatto per voi?
M: Ci hanno indicato l’ospedale di referenza.
V: Lei era stata ferita?
M: No.
V: Ma aveva bisogno comunque di andare in ospedale, vero?
M: Sì, dada… E dopo il trattamento medico ho cominciato un piccolo ciclo di incontri con un’assistente psicosociale. E’ da allora che ha deciso di diventare membra del gruppo.
V: E per il momento è contenta di questa decisione?
M: Sì, molto.
V: Che cosa la rende contenta?
M: E’ stato molto bello incontrare l’assistente psicosociale. Mi ha aiutato molto dopo quello che è successo… sono davvero grata per questo servizio.
V: E che altro?
M: Col tempo sono venuta a conoscenza delle altre attività del gruppo, per esempio del fatto che esiste un fondo comune da cui i membri possono prelevare un prestito. Io ne ho usufruito e ho preso in affitto un nuovo campo, in una zona più fertile. Costa quindici dollari all’anno ma con quello che coltivo riesco a ripagarlo e a guadagnarci qualcosa.
V: Ottimo. E in cos’altro è stata utile l’associazione?
M: Abbiamo comprato dieci capre in comune. Non sono molte per un gruppo di ottanta membri, ma ci possiamo ripartire i cuccioli. Io per esempio mi sono offerta di curare una delle capre, e il primo piccolo è stato dichiarato di mia proprietà.
V: Quindi ora possiede una capra tutta sua. Non di suo marito, ma sua.
M: Esatto. E quando la mia capra ha fatto dei piccoli li ho rivenduti per 25 dollari l’uno, e ho potuto pagare la retta della scuola di mio figlio.
V: Ben fatto! E ha seguito anche qualche corso organizzato dall’associazione?
M: Sì, due. Uno sulle tecniche agricole, e uno di alfabetizzazione.
V: E che cosa ha imparato?
M: In quello sulle tecniche agricole ho imparato che la coltivazione di verdura è più semplice e veloce di quella dei cereali, e possono essere raccolti più volte l’anno. In quello sull’alfabetizzazione mi hanno insegnato a fare qualche conto. Mi è utile per quando devo pagare l’affitto.
V: Ma è meraviglioso.
M: Sì dada. Se continuo così, alla fine del prossimo ciclo magari saprò anche leggere e scrivere!

N.B.: Come parte integrante del programma contro le violenze sessuali in Nord e Sud Kivu, la mia organizzazione sostiene 36 gruppi di donne locali. Il sostegno consiste in incontri regolari per offrire consigli sulle attività d organizzare, l’erogazione di piccoli fondi per l’acquisto comune di bestiame o pezzi di terra, l’organizzazione di corsi di vario genere e l’educazione su tipi, cause e conseguenze delle violenze sessuali, compreso l’accesso a servizi medici, legai e psicosociali sul territorio.

domenica 19 dicembre 2010

giovedì 16 dicembre 2010

Esportare democrazia

Ragazza che si iscrive alle elezioni
La mia organizzazione sta implementando il progetto piu' grande che sia mai stato realizzato in Congo. Si tratta di un progetto di governance. Il suo obiettivo e' di formare una mentalita' democratica nella popolazione a partire dal basso.
 
In termini molto semplici, si tratta di questo. Noi scegliamo alcune centinaia di villaggi in varie zone del Congo. Organizziamo l'elezione di speciali comitati di villaggio che saranno responsabili per l'esecuzione del progetto. Diamo loro dei soldi da utilizzare come vogliono, a condizione che le priorita' siano decise in consultazione con il resto della popolazione. I soldi vengono spesi pe realizzare cio' di cui il villaggio ha piu' bisogno (una scuola, una strada, accesso all'acqua potabile...). Durante tutto il percorso la popolazione e' responsabile di seguire come i soldi vengono spesi.

Il bello di questo progetto e' che non solo questi centinaia di villaggi si troveranno arricchiti di scuole e strade. Ma in questo modo si dovrebbe anche introdurre il concetto di elezioni democratiche, di responsabilita' politica, del diritto al controllo da parte della popolazione di cio' che viene fatto con le risorse comuni. Diminuendo cosi' il livello di corruzione, di potere assoluto dei capi tradizionali, di ruberia automatica dei fondi pubblici.

Questo, ovviamente, in teoria. Dobbiamo ancora capire se il progetto funzionera', e come, e quanto. Per questo una prestigiosa universita' americana e' stata invitata far parte del programma per verificare in modo scientifico e rigoroso gli effetti di quest'intervento. E qui si apre il terreno delle dispute. Cosa e' etico e cosa non e' etico fare in una ricerca scientifica su gruppi umani?
Elezioni in villaggio organizate da noi
I ricercatori hanno pensato di cambiare alcune variabili del progetto da villaggio a villaggio, per vedere le differenze nei risultati a livello locale. Per esempio, al posto che organizzare ovunque elezioni democratiche per i comitati di gestione dei fondi, in alcuni casi si proporra' alla comunita' di "scegliere i propri rappresentati" autonomamente, il che in pratica significa dare carta bianca ai capi villaggio tradizionali. L'idea di fondo e' cercare di capire se il progetto funziona meglio se si crea in modo perfettamente democratico un comitato nuovo, o se invece risulta piu' efficiente usare le istituzioni di villaggio che gia' esistono e gia' hanno il rispetto popolare, anche se non sono democratiche.

C'e' chi dice che rinforzare il modello anti-democratico e' profondamente anti-etico. Il programma e' stato realizzato a partire da decenni di studi comparati di pratiche umanitarie e di sviluppo, e sappiamo per esperienza che la creazione di comitati democratici e' l'unico modo per aprire la strada verso la formazione di una vera mentalita' di gestione comune e responsabile della cosa pubblica. Sperimentazioni in questo campo non sono che un trastullo intellettuale che non tiene conto degli effetti sulle vite delle persone.

Altri dicono che good intentions are not enough. Idealismi a parte, non sappiamo cosa funziona meglio finche' non lo si sperimenta. Le esperienze di "best practice" umanitarie sono impregnate da miti, da assumptions che non son mai appurate scientificamente. E' proprio vero che esportare la democrazia in stile puramente occidentale porta i risultati migliori in termine di benessere della popolazione? Siamo davvero certi che non sia piu' facile introdurre il concetto di "accountability" rispetto a un'autorita' tradizionale che e' gia' riconosciuta come tale, invece di crearne una nuova con il rischio che si dissolva appena i soldi finiscono?

Questo e' il dilemma, ed e' ancora aperto.

mercoledì 15 dicembre 2010

Bukavu


Bukavu e’ una citta’ vera, e viva. C’e’ traffico per strada, rumore, bancarelle. Addirittura un po’ di musica qua e la’ - altoparlanti che trasmettono reggae jamaicano come nel resto d’Africa. Ci sono matatu, mercatini, taxi. Automobili civili. Un ronzare continuo di attivita’ e piccoli commerci, merci che si spostano, clienti che comprano.

La gente del Sud Kivu ha uno spirito imprenditoriale, tanto che al Nord li chiamano gli wa-chinois, i « cinesi » (wa- e’ prefisso plurale in Swaihili).

Si tratta pur sempre di una citta’ povera e maleodorante, ma almeno non sembra che ci sia appena caduto sopra un meteorite. Almeno non si ha l’impressione di vivere in un mondo alla rovescia, un mondo muto e traballante e fragile e tagliente come quello di Goma. E’ semplicemente una cittadina congolese, sul lago Kivu. Coste sinuose e terra rossa, frutta marcia e fiori.

Eppure, Bukavu non tocca il mio cuore. Mi scivola addosso senza lasciare traccia. In un certo senso perverso, preferisco mille volte le vene nere e aperte della mia Goma dissanguata.

lunedì 13 dicembre 2010

Goma hurts

Non ci posso credere, lo sta facendo di nuovo. Si sta spogliando nel mezzo del locale, davanti a tutti. Completamente nudo, nemmeno le mutande, balla ubriaco sul banco del bar nell’euforia generale. E' la sua ultima sera a Goma, non puo' non tirar fuori il solito show. La gente se lo aspetta, in un certo senso. Ne parlera’ il lunedi’ mattina in pausa caffe’ durante il briefing di routine sui pettegolezzi da week-end.

Ma io non ce la faccio, a considerarla una cosa normale. Va bene che qui nulla è normale. Che la vita in missione deforma un po’ tutto. Che siamo tutti un po’ pazzi e ne siamo pure fieri. Che agli umanitari piacciono le personalita’ forti. Che spogliarsi nudi significa andare contro le convenzioni, e a noi le convenzioni non piacciono, altrimenti ce ne staremmo a Milano-in New Jersey-a Limonge a prendere il tram tutte le mattine per andare a lavorare. Che in fondo chissenefrega di cosa è normale e cosa non lo è, l’importante è ridere e aggiungere un pizzico d’eccitazione ad una serata altrimenti sempre uguale.

Ma io non voglio riderne, non voglio varcare questa linea. In un posto in cui la contraddizione regna sovrana, io hic et nunc demarco il mio limite. Non è accettabile per un capo missione, per un uomo di quasi quarant’anni, fare uno strip-tease in un locale pubblico davanti a sciami di colleghi. Per un uomo intelligentissimo, tra l’altro. Uno di quelli che ti mettono soggezione quando gli parli da quanto è acuto, uno di quelli con cui si cerca sempre di stare di pari passo nell’argomentazione per non sfigurare. Quello che interviene sempre per primo alle riunioni OCHA. Che capisce di piu’ di tutti del contesto del Nord Kivu. Quello che si fa portavoce della comunita’ umanitaria di fronte ai vari rappresentanti e diplomatici in visita da Kinshasa e New York, e articola eloquentemente i bisogni e i dilemmi dei nostri interventi sul terreno.

L’intelligenza non protegge, qui. E nemmeno la vita sociale. C’è chi lavora troppo, chi festeggia troppo, chi fa troppo di tutti e due perchè crede di essere immortale. Ci si brucia in fretta, stiamo impazzendo tutti. Impazziamo insieme, lui si spoglia e gli altri applaudono. Io resto aggrappata alla mia sanita’ mentale, e vedo questo triste spettacolo come un’implorazione disperata di attenzione, segno ultimo di un dolore sconfinato, di una solitudine senza fondo. E mi viene da piangere.

venerdì 10 dicembre 2010

Triste nuova

Era cominciata in modo simpatico. Al mio ritorno da Zanzibar, coperta di polvere e collanine, trovo con infinita sorpresa tre bellissimi ragazzi nel mio soggiorno. "Oh, quelli sono i kayakers", mi informa B ammiccando, dopo avermi abbracciata. "Kayakers?", rispondo io, incredula. "Si, tre ragazzi che girano la regione dei grandi laghi in kayak. Stiamo dando loro una mano dal punto di vista organizzativo". E poi aggiunge con un sorriso: "Abbiamo passato un bellissimo weekend sul lago, mancavi solo tu".

Pranziamo assieme, sembrano simpatici. Raccontano di aver gia' navigato il Nilo, in Uganda, e qualche corso d'acqua sulle montagne del Rwenzori. Si apprestano ora a discendere il fiume Congo, da Kalemie a Kisangani. Mentre me lo dicono, vedono disegnarsi sul mio volto la solita espressione di scetticismo. "Volete davvero percorrere il fiume Congo? Ma vi rendete conto di quanto sia pericoloso?" Loro annuiscono, pieni d'orgoglio e di eccitazione. E dopo una mezz'ora si allontanano sull'acqua, remando con scioltezza in direzione di Bukavu.

Durante le due settimane seguenti, io, H e B ci troviamo piu' volte a parlare dei kayakers. "Totalmente impreparati", dice H, come al solito senza vie di mezzo. "Non hanno nemmeno una mappa del Congo, non sanno quello che fanno". "Si, non hanno capito che il Congo non e' come l'Uganda o il Kenya. Non avevano nemmeno idea delle procedure burocratiche per il visto d'ingresso, ho dovuto passare tutto il pomeriggio alla direzione delle migrazioni per riuscire a farli entrare". "Parlano francese?", inervengo io, ancora confusa. "Non una parola, ne' di francese, ne' di swahili". "E come faranno, allora?", chiedo sbalordita. "Ad attraversare migliaia di chilometri di terra vergine, con solo indigeni e gruppi armati sul cammino?" "Per non parlare degli animali feroci", aggiunge B. "E delle malattie tropicali", incalza H. "E dove pensano di trovare l'acqua potabile?", riprendo io, ancora. Nessuno sa rispondere.

L'altro ieri, nel bel mezzo del nostro pranzo in terrazza, il blackberry di B segnala l'arrivo di un'email. Lui lo afferra distrattamente, legge. E nel giro di un paio di secondi un terrore straziante s'impadronisce dei suoi occhi. "Oh my God!", urla con voce rotta. "E' successo qualcosa a A, uno dei kayakers!" Il suo tono ci colpisce come un pugno. Il suo viso e la sua voce non lasciano spazio a fraintendimenti: io e H realizziamo cio' che stiamo per ascoltare...  E un'ombra di disperazione si espande piano su noi tre, infittendo gradulamente il silenzio che ci avvolge. B si mette a leggere, lentamente e sottovoce, la comunicazione di lutto. Avevano lasciato Kalemie solo da tre giorni. E' stato un coccodrillo.

Respiriamo, guardiamo il lago coperto di scintille di sole. Nessuno sa cosa dire, cosa pensare. E' sempre la stessa lezione brutale. Il Congo e' un assassino.

lunedì 6 dicembre 2010

Notte araba...

Era praticamente come essere in Libia. Quella terrazza, quei cuscini rossi. I materassi che ne seguivano il perimetro, le voci arabe di uomini scuri e sconosciuti. Io stavo li' seduta a gambe incrociate a godermi il tramonto color pesca, a fumare il narghile'. Lentamente, boccata dopo boccata dopo boccata. Il fumo che fluttuava sopra la mia testa prima che fosse il momento di passarlo. Il ragazzo a fianco a me era un ingegnere barbuto che non sapeva una parola d'inglese. Quello di fronte il direttore di un hotel. Mi mostrava il suo orologio d'oro, appena preso a Dubai.

Ero a Kigali, ma l'Africa sembrava lontanissima. Si disfaceva minuto per minuto mentre il sole scendeva, mentre i colori del Rwanda si affievolivano. Penetravamo gradualmente in una notte araba, calda e striata di cicale.
C'era un vassoio d'argento colmo di frutta fresca, bottiglie di vino, caffe' caldo speziato al cardamone. Nulla mai si consumava, il vassoio veniva magicamente riempito, il caffe' rifatto. L'unico nostro compito era di passare ore ed ore su quei tappeti, su quei cuscini, lasciando che la vita ci scorresse intorno come un fiume lento e inesorabile. C'era una certa sensualita', in quella molle attesa. La cena e' arrivata verso le dieci, i vassoi appoggiati per terra. Eravamo noi tre e una decina di loro, tutti uomini. Mangiavamo con le mani direttamente dal piatto. Era delizioso, ci sorridevamo con gli occhi.

La comunita' libica e' potente, in Africa. Quel sanguinario di Gheddafi versa milioni di milioni in questa parte di mondo. Ha fatto costruire una moschea enorme a Kampala. Ha dispiegato una catena di hotel di lusso chiamata LAICO (Lybian African Investment Company) in tutte le capitali. Nel 2008 e' stato proclamato King of Kings dagli altri leaders africani, e lui regolarmente ventila il mito di un'Africa unita, con un solo passaporto e una sola moneta.

La comunita' libica e' potente, misteriosa e inaccessibile. Io li' in mezzo non so che cosa ci facevo. Ma e' stato magico, e indimenticabile.

Il concetto di cappuccino a Goma

Penso che siamo tutti d'accordo. Quando ci si sveglia alle cinque e mezza di mattina, l'unica cosa che puo' restituire forme e colori a un mondo altrimenti irreparabilmente annebbiato dal sonno e' un sano cappuccino.

All'aeroporto di Goma - bien sur - bisogna sapersi accontentare. Il "cappuccino" non esiste, e benche' il tutto non sia la somma delle parti, si e' obbligati a scendere di default al triste compromesso coffee-plus-milk.

E magari fosse cosi' semplice. Viene fuori che il caffe' consiste in una brocca di acqua calda e una bustina di STAR coffee, l'omologo ugandese del Nescafe. E il latte e' latte in polvere. Lo so (lo so!) che oramai non dovrebbe piu' essere una novita'. Ma stamattina - sara' il sonno - non ho potuto fare a meno di restarci male.

"Ma non c'e' latte?" "E' qui, madame". "No, dico latte vero". "E' latte vero". "Latte liquido". "Liquido?". "Si, il latte normalmente e' liquido". "Madame scherza". "No che non scherzo, quando il latte esce dalla mucca e' liquido, no?" Il cameriere mi guarda con sospetto e poi ride, come se avessi detto la cosa piu' buffa del mondo.

E' un collega ad illuminarmi. Qui in Congo, bere il latte liquido e' considerata un'usanza strana. In Nord Kivu c'e' solo una tribu' che lo fa, e per di piu' rwandofona. Una tribu' dedicata alla pastorizia che beve il latte delle proprie mucche e delle proprie capre. Per gli altri congolesi, si tratta di una pratica un po' selvaggia. E a dirla tutta, anche leggermente disgustosa.

domenica 5 dicembre 2010

Torneo di ping-pong


Photo courtesy of B-cee.

sabato 4 dicembre 2010

It's not funny... but it is funny

Uno. Dei conoscenti sono stati derubati dalle loro stesse guardie. Guardie pagate per proteggerli, per sorvegliare il cancello la notte. Al ritorno da una serata, hanno trovato la casa svaligiata, le guardie volatilizzate.

Due. Dei muratori impiegati per fare una strada sono fuggiti dal cantiere portandosi via tutto il cemento. Il loro stipendio fruttava meno che la vendita del materiale.

Tre. Dei detenuti si sono messi d'accordo con le guardie della prigione di Goma perche' li facessero uscire di notte. Andassero a rubare o a commettere crimini affini. E ritornassero in cella all'alba, spartendo il bottino con i secondini.

venerdì 3 dicembre 2010

Kin concert


...E il concerto era cosi'. Su un piccolo palco allestito in un buco oscuro della Kin underground - tanto che ho dovuto interpellare tre persone diverse per trovare l'indirizzo. Con il solito barettino-bugigattolo nell'angolo, fatto di assi di legno scardinate. Con una platea di sedie di plastica con scritto "Deiu vous benisse" sul sedile, su un pavimento di terra e di sassi che grazie al cielo che non ho i tacchi.

E' pieno, folla mista. Tanti espatriati, tanti congolesi, tanti bambini che ballano negli angoli. La musica e' alta, la notte e' calda, e davanti a noi si scatenano una decina di ragazzoni sguaiati che scoppiano nelle cannottiere attillate. Vengono dal Kasai, questa regione sconosciuta. Dal Kasai di cui non so nulla se non che e' semispopolato e vi si producono le maschere piu' belle del Congo. Che vi vige il tribalismo assoluto. Balli nei villaggi al suono dei tamburi, animismo e stregoneria. A quanto pare il leader del gruppo e' arrivato a Kinshasa con l'esercito del '96, quello che ha fatto cadere Mobutu. Prima di trovarsi a fare lo scemo su questo palchetto scricchiolante si e' attraversato a piedi il Congo. Da guerrigliero. 

Sono sbalordita, sono estasiata, sono divertita come non mai. Qual'e' il link fra il Kasai e questa rumba rockettara che cola dagli altoparlanti? E queste enormi parrucche afro anni settanta, di un'auto-ironia che nell'Est non si trova neanche col lanternino? E queste bandierine del Congo cucite sui gilet di pelle, questi balli scurrili, queste gag da pagliacci? Mi fanno ridere, mi fanno ridere e ballare.

Come sempre, cerco una conferma di senso negli occhi dei miei amici. E' proprio tutto vero? Esiste davvero questo posto, questa musica, questo cortile afoso? Esistono queste parrucche, queste birre calde, questo ritmo sfrenato? Come puo' stare in equilibrio tutta questa assurdita' impossibile? Non dovrebbe esplodere l'universo? Gli altri confermano: esistiamo tutti, eccome se esistiamo. E io penso che accidenti. Adoro questo paese.

giovedì 2 dicembre 2010

Mini arresto

Quando ho contattato F via e-mail una settimana prima di trasferirmi a Goma, lei mi ha subito informata. In un anno di Congo, bisogna mettere in conto almeno un assalto. Ossia un gruppo armato o dei soldati che ti fermano la macchina, minacciano e chiedono soldi. Ora, con tanto che vivo in Nord Kivu, non mi aspettavo che una cosa del genere sarebbe successa proprio nella relativamente tranquilla capitale.

Stiamo cercando la location di un concerto con istruzioni date per sms, prendiamo la stradina sbagliata. Dopo 200 metri ce ne accorgiamo e torniamo indietro. Et voila. La strada e' sbarrata e un soldato salta fuori da dietro l'angolo chiedendo amabilmente "chi-siete-dove-andate-che-cosa-volete". Cheppalle, ci vuole pure questo, gia' siamo in ritardo, penso io. Apro la portiera e rispondo gentilmente: "Abbiamo sbagliato strada, puo' aprire per favore?". Ma lui non e' simpatico, mette su l'aria minacciosa, e' evidente che non ha nessuna voglia di aprirci gratis. Capisco l'antifona, faccio roteare gli occhi, chiudo la portiera e la blocco. Ora e' sicuro che ci perdiamo l'inizio.

M ha piu' pazienza di me, prende la situazione in mano e comincia a raccontare il perche' e il percome abbiamo sbagliato strada. Meglio cosi', mi dico. Meglio lasciar gestire a lui tutta questa burocrazia orale. Lui e' un uomo e quindi automaticamente un interlocutore accettabile per questo fesso di un militare, a differenza della sottoscritta. Arriva un secondo soldato. Entrambi indossano i soliti fucili lunghi un metro a tracolla, come fossero una borsetta per signore. Provo ancora a intervenire, a dire che ci lascino passare. Mi chiamano madame e mi dicono di cambiare tono. Li mando mentalmente a quel paese e sprofondo nel sedile.

La cosa si tira in lungo, io mi innervosisco. Non ho paura, so che non e' nel loro interesse farci nulla, vogliono solo soldi. Perche' non arrivano al punto? In Nord Kivu la richiesta sarebbe stata fatta un quarto d'ora fa.

Finalmente si scantano, ma il modo in cui formulano la richiesta  non puo' che farmi sorridere. "Voi andate a un concerto e noi stiamo qui ad annoiarci, che ingiustizia. Potete darci qualcosa per comprare delle birre?" L'ennesima disostrazione che in questo paese la dignita' proprio non esiste. M tira fuori quella che pare una scusa ripetuta mille volte. "Vorrei ma non posso, ogni dollaro che esce dalle mie tasche deve essere approvato dai miei superiori". Nel buio del mio sedile, io alzo le sopracciglia. Questa scusa non ha sensonon ci cascheranno mai. Loro insistono, lui ripete. Mi spiace, no-se-puede. Ma fa bene ad essere fermo, rifletto. Almeno fin quando non diventano violenti. Non possiamo mica metterci a smazzettare ogni soldato che vuole una birra.

Le trattative durano qualche minuto, e io sono genuinamente curiosa di vedere se la scusa delle approvazioni attecchisce. Sorprendentemente si'. I soldati capiscono che non e' cosa e finalmente decidono di lasciarci andare, dicendo con fare paternalistico di fare attenzione a non commettere mai piu' errori del genere. Sissignore. Prometto che non sbagliero' mai piu' strada nella mia vita, vorrei dichiarare, sarcastica. Ma mi trattengo, meglio non provocarli, e poi me ne voglio andare da questo lurido posto.

Solo tre giorni dopo ho pensato che erano armati, ed era una strada deserta. E io ero una ragazza, e bianca, e con un vestitino sopra al ginocchio.